Il posto della mente è una piccola oasi letteraria dove possiamo andare quando abbiamo bisogno di qualcosa di diverso. Di leggere, o scrivere storie. Storie inventate, come quelle che io, da principiante, sottopongo al vostro giudizio, oppure storie vere, piccoli "frammenti di vita" che scivolerebbero immediatamente nell'oblio se qualcuno di noi non li raccogliesse.

Frammenti di vita..................Racconti & Poesie..................Paco de Luna..................Pensieri sparsi..................CONTATTI

lunedì 19 dicembre 2011

Paco de luna - Terzo quadro 4 [gianbarly] Incontri


L'incontro - Clod

Avevo un disperato bisogno di riflettere. Intorno a me le cose si muovevano con una velocità impressionante ed io non riuscivo a capire con chiarezza quello che avrei dovuto fare.
Quel pomeriggio, approfittando dell’ennesima commissione che l’Antonia mi aveva affibbiato, mi ero preso una pausa. Non mi pesava la sua espressione di acida soddisfazione nei miei confronti che aveva da quando alla tele erano cambiati gli equilibri. In realtà la cosa mi lasciava indifferente perché non riuscivo a capire come una persona potesse cambiare così il proprio atteggiamento, mostrando più o meno simpatia per qualcuno in base ad astrusi equilibri di potere. Non mi capacitavo che qualcuno potesse dar peso a cose così meschine. Da parte mia mi limitavo semplicemente a fare il mio lavoro, schivando quanto più possibile le beghe interne alla redazione.

venerdì 9 dicembre 2011

Punti di vista [gianbarly]


Ancora una volta mi lascio dondolare dal ritmo costante del respiro. Ogni movimento della cassa toracica mi fa distendere fin quasi al limite massimo delle mie capacità per farmi poi ritornare lentamente alla mia forma originaria. E’ come una ginnastica dolce, distensiva, un massaggio delicato che tonifica il corpo. Un movimento in perfetta sincronia con le altre cellule dell’alveolo. Tutte insieme ci distendiamo all’arrivo dell’aria fresca, ne assorbiamo quanta più ci riesce e poi via, a risputare fuori altra aria, carica di anidride. Una danza cui tutti partecipano con gioia.

martedì 22 novembre 2011

Un racconto da antologia!



Il mio primo (unico?) riconoscimento come "scrittore". Mesi fa ho mandato una mia raccolta di racconti al concorso "Il lancio della penna" promosso da "Cultura Fresca" di Bari. Era la prima volta che provavo a misurarmi in un concorso.
Ovvia la delusione. Nessun premio, neppure una menzione. Niente di niente. Poi, quando la cosa era ormai archiviata nella mia memoria, una telefonata dalla Puglia. Uno dei miei racconti sarà incluso nell'antologia che Cultura Fresca sta facendo con le opere migliori del concorso!
Il racconto selezionato è "L'intruso", che ho scritto per puro divertimento a margine di un progetto ambizioso che sto portando avanti con un gruppo di amici. Che sia di buon auspicio?

Grazie a Cultura Fresca per il riconoscimento. Mi sa che parteciperò anche all'edizione 2012!

sabato 19 novembre 2011

My generation (?!!!!!!!)

Mio figlio, con cui parliamo spesso dei problemi che la sua generazione si trova ad affrontare, mi ha messo, un giorno, di fronte alla mia storia. Senza astio ma anche senza sconti mi ha detto che la mia è stata probabilmente la generazione più fortunata.

Sono nato negli anni Cinquanta (1954 per l'esattezza), a sufficiente distanza dalla fine della guerra per non sentirne più gli effetti nefasti, circondato dalla voglia di risorgere.

Ero bambino negli anni Sessanta, gli anni del boom economico, e sotto i miei occhi pieni di meraviglia l'Italia si è trasformata in un paese moderno. E' arrivato il frigorifero, la televisione, il riscaldamento. Le sfide della scienza che ci facevano sentire invincibili, fino all'apoteosi finale: vedere in diretta, con i propri occhi, l'uomo sulla Luna!

La mia gioventù si è snodata lungo gli anni Settanta, proprio quando i giovani sono stati protagonisti, quando il mondo, tutto quanto e tutto insieme, si è messo in discussione ed ha cercato una nuova identità. Erano gli anni degli ideali, delle possibilità infinite, dell'uomo nuovo. Gli anni incredibili della musica, quando ogni giorno ti incollavi alla radio per farti entrare dentro un nuovo capolavoro. Dal rock a De Andrè era un continuo susseguirsi di pezzi destinati a rimanere nel tempo.

Ero trentenne, l'età della propria costruzione, negli anni Ottanta, quando un benessere che non sapevamo essere vacuo (e, soprattutto, a spese di chi sarebbe venuto dopo di noi) ci ha consentito di avere praticamente tutto. Gli anni dell'edonismo reganiano, dove anche l'operaio poteva permettersi, una tantum, di comprarsi il maglioncino di cachemere.

Mi sono trovato quarantenne durante i Novanta, gli anni in cui la crisi ha cominciato a scavare, ma noi non ce ne accorgevamo, troppo intenti a raccogliere i frutti economici che ancora arrivavano copiosi nelle nostre tasche. Abbastanza moderno da saper approfittare delle opportunità offerte da Internet, dalla globalizzazione senza doverci costruire sopra il mio futuro.

L'unica cosa che non mi è riuscita, in effetti, è stata quella di andare in pensione negli anni Duemila, come è successo ad alcuni miei coetanei. Avrei potuto assistere al difficile cammino di chi è giovane adesso da una posizione di comodo.

 Non so se debbo o no vergognarmi di tutto questo. In fondo non me lo son voluto, l'ho semplicemente subito. Però un tarlo lavora dentro di me e mi dice che una qualche colpa ce l'ho, se non sono stato in grado (assieme ai miei coetanei) di offrire ai miei figli almeno le stesse opportunità.

Anche su una eventuale colonna sonora sono indeciso. Fra My Generation e The Times They Are A-Changin farò così: ve li offro tutti e due.

domenica 23 ottobre 2011

Monolithos



L’Egeo si veste d’oro zecchino
la pelle salata
vibra alla carezza degli ultimi raggi
i pini profumano di resina
e, sopra ogni cosa,
il silenzio.

Bisogna andarci apposta, a Monolithos sulla costa occidentale dell’isola di Rodi. E conviene arrivarci poco prima del tramonto, una mezz’ora almeno, per avere il tempo di arrampicarsi in cima e di ammirare con calma, in perfetta solitudine, la chiesetta di Agios Georgios  costruita sulle rovine della fortificazione.
Poi, come ad un segnale convenuto, quasi fossero adepti di una strana setta adoratrice del sole, altre persone cominciano a sbucare dagli anfratti, a coppie o a piccoli gruppi e si radunano sullo sperone che si affaccia sull’Egeo. Bisogna allora trovasi un proprio posto, sufficientemente discosto dagli altri, e lasciare che i nostri sensi si espandano, non più imbrigliati dai troppi stimoli della nostra vita quotidiana. 
Bisogna proprio andarci, a Monolithos.

sabato 17 settembre 2011

L'organo [gianbarly]

A. Modigliani - Nudo sdraiato

Getto per l’ennesima volta un’occhiata distratta dalla finestra, poi torno senza fretta alle mie faccende. Il molle pomeriggio domenicale non offre distrazioni. Il caldo comincia a farsi sentire e non vedo l’ora di finire per poter tornare dabbasso, dove c’è più fresco. Un velo di sudore mi bagna la pelle, nonostante abbia indosso solo un corto vestitino di cotone.

sabato 10 settembre 2011

11 Settembre. Dicci dov'eri.

Ci siamo. Come tutti gli anni, un brivido mi percorre quando guardo il calendario e mi accorgo che siamo arrivati a questo giorno. In bocca un gusto amaro, che sa di dolore, di ingiustizia, di follia, quella follia che porta qualcuno a diffondere le sue idee uccidendo chi si è scelto come nemico.
Me lo ricordo dov'ero quel giorno, me lo ricordo bene. Giorni davvero speciali per me. Era l'estate della maturità e un incredibile colpo di fortuna mi aveva consentito di festeggiarla alla grande. Un mio amico andava a trovare la sorella più grande che viveva in Svezia. Mi aveva chiesto di accompagnarlo. Così mi ero trovato a Goteborg, alloggiato precariamente in un appartamentino della Casa dello Studente, ma nella mitica Svezia, avanti anni luce rispetto alla nostra Italia arretrata e bigotta.
Me lo ricordo il momento preciso in cui l'abbiamo saputo. Come fosse ora. Eravamo tutti e quattro, io, Aldo il mio amico, sua sorella ed il marito di lei, nel piccolo salotto, intenti a chiaccherare. Il televisore era acceso, ma nessuno ci faceva caso. Di colpo il padrone di casa, l'unico che sapeva bene lo svedese, si è irrigidito, voltandosi verso l'apparecchio. Poi, subito dopo, ci ha detto: "Hanno fatto il golpe in Cile!".
Nelle ore e nei giorni successivi le notizie che non avremmo mai voluto sentire. La morte di Allende, le retate, i  prigionieri nello stadio, le torture. La morte di Neruda. Le canzoni degli Inti Illimani che ci parlavano della tragica illusione di costruire un mondo nuovo senza fare i conti con le forze che lo avversavano.
Quell'undici settembre del 1973 ha messo la mia generazione, brutalmente, di fronte alla realtà. Chissà come sarebbero stati gli anni settanta qui in Italia se in Cile non fosse andata così.

Non crediate che con questa rievocazione voglia snobbare l'altro undici settembre. Tutt'altro. Ho un grande rispetto per il dolore degli americani. I loro morti valgono esattamente quanto quelli del Cile e di ogni posto al mondo dove si muore per la follia guerresca di qualcuno. Ho solo voluto dire che quello del 2001 non è l'unico undici settembre. Che, come ha detto Gino Strada, ci sono persone, esseri umani, per i quali è l'undici settembre tutto l'anno. Il loro calendario è fatto solo di sofferenza. Vorrei che in questa ricorrenza potessimo pensare anche a loro.

La colonna sonora di questo post non può che essere la meravigliosa "Gracias alla vida" della cilena Violeta Parra.





Grazie alla Vita
Grazie alla vita che mi ha dato tanto
mi ha dato due soli, che quando li apro
perfetto distinguo il nero dal bianco
e nell’alto cielo lo sfondo stellato
e in mezzo alla folla l’uomo che io amo
Grazie alla vita che mi ha dato tanto
mi ha dato l’udito che in tutto il suo raggio
sente notte e giorno urla, tv e radio
silenzio, vetri rotti, risate e pianto
e la voce dolce del mio bene amato
Grazie alla vita che mi ha dato tanto
mi ha dato il suono e il vocabolario
con lui le parole che penso e declamo
madre amica sorella e sole illuminando
e la via dell’anima di chi sto amando
Grazie alla vita che mi ha dato tanto
mi ha dato i piedi che sto trascinando
con loro ho guardato cittadine e fango
laghi neve deserti monti e mare caldo
e casa tua il tuo vicolo la strada e il parco
Grazie alla vita che mi ha dato tanto
mi ha dato il cuore che agita il suo passo
quando vedo il frutto del pensiero umano
quando vedo il bene, dal male lontano
quando vedo in fondo al tuo sguardo chiaro
Grazie alla vita che mi ha dato tanto
mi ha dato il sorriso e mi ha dato il pianto
così io distinguo bacio da cuore infranto
i 2 materiali che fanno il mio canto
ed il vostro canto che è lo stesso canto
e il canto di tutti che è il mio stesso canto
Gracias a la vida que me ha dado tanto!
Tradotta LiberaMente da VaLentin@rtista.sud

venerdì 2 settembre 2011

La pioggia [Nunzio Campanelli]


Tolouse-Lautrec
Le prostitute

Venne risvegliato dal cigolio della porta che si stava richiudendo. Faticò a riconnettersi con la realtà, con quella realtà. 
Si era addormentato appoggiando la testa sul tavolo. Un bicchiere di vodka ben stretto nella mano.
Poco più avanti, seduto ad un altro tavolo uno squallido individuo stava palpando il nudo deretano di una prostituta.
Tutto intorno a lui un'umanità eterogenea era impegnata a dimenticare che il mondo si era dimenticato di lei. Risate si alternavano a gemiti soffocati e versi gutturali, tremori a sobbalzi e ammiccamenti, nel folle tentativo di esorcizzare i propri fallimenti esistenziali. 

sabato 27 agosto 2011

Satira e potere

Fino ad ieri non conoscevo Ali Ferzat. Non sapevo nulla di lui fino a quando non mi sono imbattuto in questa notizia:


Mani spezzate al vignettista siriano anti regime

DAMASCO - Aveva disegnato Assad che faceva l' autostop con Gheddafi e altre vignette satiriche anti regime. Lo hanno pestato a sangue e gli hanno spezzato le mani. Così gli agenti dei servizi di sicurezza di Damasco hanno dato una lezione al celebre vignettista siriano Ali Ferzat per ridurlo al silenzio. Gli hanno detto, ha riferito un familiare dell' artista, che si è trattato «solo di un avvertimento» e gli hanno ordinato di smettere di disegnare. «Le nostre vite sono in pericolo», ha spiegato l' uomo. Fondatore di un giornale satirico chiuso dopo numerosi attacchi e censure, il disegnatore ha un sito dove pubblica i suoi disegni (www.ali-ferzat.com) che ieri è stato a tratti oscurato. Alla vigilia del 25esimo venerdì consecutivo di proteste, gli attivisti hanno denunciato l' uccisione di almeno quindici persone in 24 ore, tra cui una donna.
Ci sono notizie che riescono a suprare la nostra indifferenza. Questa è una di quelle. Anche oltre alle centinaia di persone uccise perchè manifestavano. Anche oltre ai carri armati che cannonneggiano le strade delle città che hanno osato ribellarsi. Perchè inchioda più d'ogni altra il regime alle sue colpe, ai suoi timori nei confronti di nemici armati solo di una matita. Perchè ci dice che teme un semplice disegnatore di vignette tanto da cercare di ridurlo al silenzio, ma che non si azzarda ad ucciderlo.
Già tutto questo sarebbe meritevole della nostra attenzione. Dovrebbe scuotere le nostre coscienze. Ma c'è qualcosa di più, qualcosa di semplice e di grandioso nello stesso tempo, che mi fa dire che anche nelle situazioni più disperate c'è una speranza. Ed è la vignetta che ho trovato stamani sul sito di Ali Ferzat. Eccola.

sabato 20 agosto 2011

Sulla porta [gianbarly]

Il potere nelle mani (da web)

Arrivo davanti alla porta spinto da una sensazione di euforia. Finalmente. Ora mi sembra di aver capito, di sapere chiaramente quel che debbo fare. E’ una cosa che mi capita di rado, solo quelle poche volte che sento di aver afferrato la verità. Non ho più dubbi, sono anzi preso da una frenesia, dall’urgenza di fare in fretta, prima che tanta chiarezza si dissolva.

lunedì 8 agosto 2011

Paco de Luna - Terzo quadro [gianbarly] La corda spezzata 3 (bozza)


“Vieni! Dio mio, devi venire subito!”
La voce di Lourdes non ammetteva repliche. Erano giorni che pensavo di chiamarla e ora che era lei a farlo, io me ne stavo lì, con il telefono in mano, senza risponderle.
Eppure, visto che la questione dell’intervista doveva andare avanti, avevo pensato di includere anche lei nel racconto. Le avrei chiesto di intervistarla e l’avrei ripresa mentre parlavamo di Paco, mi sarei fatto dire di lui, dei suoi aspetti più familiari, di come si erano conosciuti. L’idea mi piaceva, più ci pensavo e più la trovavo perfetta da ogni punto di vista.


domenica 7 agosto 2011

OBAMA e GORBACIOV: DESTINI PARALLELI (O DEL NUOVO ORDINE MONDIALE)

Uno strano destino si sta profilando per Barack Obama. Mi ricorda quello di Gorbaciov, tanto amato nel mondo quanto odiato in patria. La sua onestà intellettuale gli impedì di portare ancora avanti la farsa della grande Unione Sovietica. Cercò di riformarla ma gli si sbriciolò fra le mani. Un muro, quello di Berlino che cadde nel 1989 fu il simbolo del suo fallimento. Anche Obama si avvia ad essere l’uomo più odiato d’America . I suoi concittadini non si vogliono sentir dire che stanno vivendo, da decenni, al di sopra delle proprie possibilità. Quelli che hanno realizzato immensi guadagni attraverso una finanza che distrugge l’economia anziché sostenerla, impediscono qualsiasi riforma del sistema. Il marchio infamante “downgrading Obama” che gli viene oggi affibbiato per il declassamento del debito USA da parte di S&P è la spia di un popolo e di una classe dirigente incapace di capire i propri errori.


 
Tutti e due, Gorbaciov ed Obama, si sono trovati a governare un impero al tramonto. Già morto, anche se apparentemente vitale. E anche Obama avrà il suo muro: quello del vecchio ghetto di New York, evocato dal nome della strada che per tutti noi è il fulcro della finanza mondiale.

 
La morte del sistema è la morte del Capitalismo, divorato dalla Globalizzazione che avanza. Sul suo certificato di morte, alla voce “Motivi del decesso” possiamo scrivere che muore perché sono venuti meno in questi anni i tre poteri regolatori che ne avevano fatto, agli occhi di molti, “il migliore dei mondi possibili”:

 
  1. il potere regolatore del mercato. I prodotti nascono, si impongono e vengono sostituiti con una tale rapidità che il mercato non ha fisicamente il tempo di far prevalere quelli migliori.
  2. Il potere regolatore della dialettica di classe. Il confronto continuo fra padroni ed operai, che ha prodotto nel passato qualche distorsione ma anche tanto progresso sociale, è stato azzerato. Il dipendente non ha più alcun potere contrattuale. La delocalizzazione consente a chi produce di spostarsi dove non ci sono conflitti, in base ai suoi esclusivi interessi.
  3. Il potere regolatore dello stato. E’ notizia di questi giorni che Google ha liquidità maggiore del Tesoro degli Stati Uniti. Oggi le grandi aziende ed alcuni singoli individui hanno invertito il rapporto di sottomissione dei cittadini allo Stato. Sono loro a imporre brutalmente le politiche ai governi.
Quindi il Capitalismo è morto. Ma sbrighiamoci a farne il funerale, che un nuovo ordine preme per affermarsi, ed avrà il volto della Cina. Come sarà, se migliore o peggiore, se ci farà volare o strisciare per terra, non lo so. Ma , giusto per fare un esempio, non sembra avere la Democrazia fra i suoi valori di base.

 
Scrivo queste note domenica 7 agosto 2011, il giorno dopo declassamento del debito USA. Il governo cinese ha sprezzantemente ordinato a quello americano di ristrutturare il suo debito, perché essi ne detengono ben il 45%. Mai si era visto dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti qualcuno che osasse dare ordini all’America. Fatti nuovi e complessi ci attendono, primo fra tutti la riapertura dei mercati azionari domani mattina.

mercoledì 3 agosto 2011

Il terremoto di Messina (come sarebbe stato se ...)

Il terremoto di Messina del 1908 provocò quasi 120.000 morti e la distruzione completa della città siciliana e in parte di Reggio Calabria.
Ecco come la notizia sarebbe stata data dal giornale radio, se allora ci fossero stati Minzolini & c.:




Dal GR1 del 28 dicembre 1908:
"Gentili ascoltatori, una buona giornata a tutti dalla redazione del GR1! Le notizie:
Questa notte una forte scossa di terremoto è stata avvertita nella zona di Messina. Si registrano danni agli edifici e delle vittime. La Protezione Civile è già all'opera per prestare i necessari soccorsi alla popolazione. Il dr Bertolaso ha dichiarato che, comunque, oltre il 98,5% degli edifici dell'isola ha resistito al terremoto, dimostrando la complessiva sicurezza delle abitazioni siciliane.
Il Governo ha già attivato un piano per il completo recupero dell'area colpita. Il Ministro per il Turismo Brambilla ha assicurato il suo sostegno ad una campagna pubblicitaria volta ad incrementare il turismo nella zona.
L'opposizione si è dichiarata insoddisfatta ed ha chiesto le dimissioni del Governo.

Ed ora parliamo di moda. Una nuova stilista si sta mettendo in luce nelle sfilate di Parigi.... 

COMMENTO
Mi capita di stare tanto in macchina e quindi di ascoltare spesso il giornale radio. Non c'è alcuna differenza fra GR1, GR2 e GR3. Le notizie sono date esattamente allo stesso modo. A forza di sentirli ho individuato una modalità costante, un metodo per non traumatizzare l'ascoltatore, per anestetizzarlo, inibirne il senso critico, evitargli la possibiltà di comprendere pienamente le cose, distrarlo. Pur non avendo alcuna competenza in fatto di comunicazione, mi sembra di aver capito che la cosa funzione secondo una scaletta ben precisa:
1. si da la notizia nuda e cruda, senza enfasi ed in modo apparentemente neutrale
2. si rimarca con forza che la situazione è sotto controllo e che il Governo e gli organismi che devono intervenire stanno facendo egregiamente il loro dovere
3. il fatto specifico si colloca comunque in un quadro strutturale solido e ben governato
4. l'opposizione protesta a prescindere (è molto importante non far capire perchè protesta!)
5. non ci sono solo notizie cattive (l'ottimismo vince sempre!)

La polpetta è cotta e pronta per essere mangiata. E tu che fai? T'abbuffi?

sabato 30 luglio 2011

Paco de Luna - Terzo quadro [gianbarly] La corda spezzata 2 (bozza)


Camminavo svogliatamente verso la tele. Un senso di frustrazione mi era entrato fin dentro le ossa, svuotandomi di ogni energia. Ero arrabbiato con me stesso, ma non avevo la forza di tramutare la rabbia in qualcosa di positivo. Non riuscivo a far altro che rimuginare sulla mia incapacità di portare avanti lucidamente qualsiasi cosa. Vedevo la vita che scorreva intorno a me come qualcosa di troppo complesso per le mie scarse capacità di comprensione. Avevo come l‘impressione di muovermi al rallentatore in una rappresentazione dove gli altri correvano velocissimi. Ero perennemente indietro, a rincorrere gli avvenimenti. Non c’era verso: quando ero convinto di avere in mano la situazione e di poter dire la mia, di poter influire sul corso degli avvenimenti, mi accorgevo che nel frattempo le cose erano andate avanti senza di me. Mi sentivo stupido. Così mi aveva definito Paco e aveva ragione. Lui sì che era al passo con la realtà, che sapeva cavalcarla, dirigerla a suo piacimento.Senza che nessuno glielo dicesse aveva compreso perfettamente le mie intenzioni, le aveva anticipate e sepolte per sempre con poche parole.

lunedì 25 luglio 2011

Paco de Luna - Terzo quadro [gianbarly] La corda spezzata 1(bozza)


Mi recavo a fare la nuova intervista a Paco spinto da un grande entusiasmo. Avevo ancora dentro di me le tracce dell’intensa emozione provata la notte precedente.  Lourdes aveva ragione: il suo uomo era un genio. Era capace come nessun altro di usare la musica per arrivare diritto al cuore. Possedeva la capacità rara di toccare le corde più nascoste dell’animo di chi lo stava ad ascoltare. Non mi spiegavo perché continuasse ancora a suonare in quel locale anonimo, invece di puntare a contratti più vantaggiosi, in grado di proiettarlo, nel giro di un stagione, sulla ribalta nazionale e forse anche internazionale.

giovedì 21 luglio 2011

Ritorno a "Paco de Luna"

Caetano Veloso
Questa è sicuramente una buona notizia per me stesso. Dopo quasi dieci mesi di totale abbandono, ho ripreso in mano il progetto del mio primo romanzo, "Paco de Luna".
E' successo, semplicemente, che mi sono ritrovato a leggere le parti che avevo scritto l'anno scorso. A distanza di tempo era quasi come leggere roba di un altro. Quello che ho letto mi è piaciuto e, di colpo, ho avuto chiaro in mente tutto l'intreccio della trama. Ora so che sarà un'opera (!) in cinque quadri e che sono in grado di completarla nel giro di sei-sette mesi. In questi giorni ho finito il secondo quadro, chiudendo il pezzo che ho chiamato "Strip-tease" e ho messo mano al primo episodio del terzo quadro. Lo pubblicherò a breve.

Faccio un appello ai miei scarsi lettori: leggetene almeno qualche pezzo e mandatemi il vostro giudizio. Per me sarà un contributo prezioso, una guida ed un incoraggiamento per completare il lavoro. Cliccando qui andate al primo capitolo.

venerdì 24 giugno 2011

Tu dov'eri? (Srebenica)

Sì, tu dov’eri nel ’95? Ora che l’hanno preso, che tutti i giornali ne parlano, questa domanda mi rimbomba ancora una volta nel cervello. Cosa facevi? A cosa pensavi?
Com’era la mia vita in quei giorni di un luglio ormai distante? Debbo fare uno sforzo per ricordare, aggrapparmi ai numeri, per cercare di ritrovare il filo dei ricordi. All’epoca avevo, per forza, 41 anni. Quindi i miei figli erano ancora bambini, uno di otto e l’altra di sei anni. Le fotografie aiutano la scarsa memoria. Di lì a poche settimane saremmo andati all’Elba, in campeggio, per le vacanze. Belle vacanze, con i rari disagi stemperati dal ricordo. “Papà, sei l’eroe dei fumetti!” mi avevano detto il giorno del temporale, quando ero riuscito a salvare la nostra tenda dalla furia della tempesta.

Fra foto e frammenti di ricordi emergono gite in canotto, passeggiate serali a Capoliveri con loro che, immancabilmente, si addormentavano durante il breve tragitto in macchina fino al campeggio e noi dovevamo poi caricarceli in spalla e posarli delicatamente nei loro sacchi a pelo cercando di non svegliarli. Avevamo una tenda grande, a casetta. Per noi era e resterà sempre “la tenda di Gheddafi”. La chiamavamo così. Mezza giornata per montarla e altrettanto per tirarla giù e compiere il miracolo di rinfilarla nei tre sacchi da cui era uscita. Una fatica improba, resa ancor più dura dalla necessità di arginare l’entusiasmo dei bambini. Che inevitabilmente veniva meno proprio nell’unico momento in cui servivano davvero: quando dovevamo reggere ognuno un montante per infilarci sotto i pali di sostegno. La tenda di Gheddafi ci ripagava però dandoci un sacco di spazio: due comode stanze, il cucinino, il soggiorno e anche un armadio di tela per i vestiti. Lì dentro facemmo quell’estate una delle foto più belle, ai bambini. Ci sono loro, in pigiama, seduti sulla soglia della loro stanza, sopra i materassini ed i sacchi a pelo, che leggono insieme un libro di fumetti. Lui con l’aria seria di chi si sente grande, perché in grado di leggere più velocemente della sorella, lei compresa nello sforzo di dimostrarsi all’altezza, ma anche fiera di avere un fratello così. Una delle poche volte, in realtà. Nei loro rapporti prevalgono ancora oggi i litigi e le male parole.
Erano anni dedicati a noi, come famiglia. A crescere i figli e a lavorare, con davvero poco tempo per pensare al fuori. Le notizie le leggevamo sul giornale o le sentivamo alla radio, ma non avevamo il tempo, la forza, di viverle. Era come se registrassimo diligentemente tutto quello che succedeva (perché abbiamo sempre avuto la voglia di informarci) ma senza che questo riuscisse a bucare il velo dell’impellenza dei bisogni quotidiani.

E allora quando ho sentito di Mladic, mi sono fatto un’altra volta quella domanda: dov’ero nei giorni di Srebenica? Se qualcuno, un giorno, (uno dei figli, per esempio) mi lanciasse addosso quella domanda, come un’accusa, anzi, come una sentenza, cosa potrei rispondere? Che ero troppo impegnato ad allevare loro? Che, comunque, non avrei potuto farci niente, fariseo fra i farisei? No, penso che non avrei il coraggio di rispondere. Chinerei il capo, con il cuore colmo di amarezza.
Il senso di colpa mi spinge però a fare l’unica cosa che posso, ora, per porre un sia pur fragile rimedio: parlarne. Parlare ancora e ripetutamente di allora, nella speranza di far capire a chi non c’era o a quelli che, come me, non hanno capito subito, non hanno visto o hanno voltato il capo dall’altra parte.
Per parlarne bisogna però partire dal senso delle parole. Il linguaggio è maledettamente importante, bisogna usarlo bene. Le parole hanno un senso al di là anche delle nostre intenzioni. Mi accorgo di aver detto all’inizio “quando l’hanno preso”. Che brutta espressione. Non si “prende” un essere umano. Sa di branco che fiuta la preda e che la incalza, reso frenetico dall’idea di banchettare con le sue viscere fumanti.
Mladic non è stato preso, è stato arrestato, dopo anni di latitanza, per le sue azioni durante le guerre jugoslave. Per spiegare queste “azioni” potrei usare i soliti termini che trovate a tonnellate sui giornali: massacri, eccidi, crimini di guerra. Sassi consumati dal troppo uso, che non trasmettono più il messaggio che hanno dentro. Bisogna cercare altre parole, altri mezzi per dire cosa è stata Srebenica. Per cercare di capire come, nell’illogica classifica dell’orrore, abbia raggiunto la cima. Il perché essa non ricada unicamente su chi ne è stato il responsabile materiale, ma su tutti noi, soprattutto su noi occidentali.
Come si fa a ricostruire in poche frasi il clima di quei tempi, in quei posti. Parlare di una situazione straordinariamente complessa, dove il bene ed il male si mescolano in un viluppo inestricabile. Dove le azioni sono (anche) conseguenza di fatti vecchi di quasi mille anni, che trovano però nuova linfa da concretissimi fatti attuali. Fatevi un giro, se lo stomaco vi regge, nei siti Internet che parlano di Srebenica, soprattutto quelli slavi. Vi farete un’idea, non dei fatti, ma della distanza immensa che ancora divide la visione dell’uno da quella dell’altro (potete partire da qui e seguire i link delle note a piè pagina).
Eppure le cose non sembravano tanto complicate. Da anni la regione era devastata da una serie di guerre che, al fondo, hanno l’odio fra le varie etnie che vivono, imbricate fra loro, nella regione. Dopo lunghe, pavide esitazioni, l’ONU aveva deciso di schierare i suoi Caschi Blu per dividere i contendenti e proteggere la popolazione civile dalle abituali violenze con cui si consumava ogni pur modesta conquista di territorio. Per questo aveva creato intorno a Srebenica una “zona franca”.
Pensate per un attimo di essere là, in mezzo ad una guerra dove non c’è divisione fisica con i nemici, perché un villaggio è con i serbi e quello vicino con i bosniaci e voi siete serbo in quello bosniaco oppure bosniaco in quello serbo. Se siete un uomo dovete essere eliminato, in quanto soldato avversario. Se donna, sarete fecondata a forza con il loro seme, in modo da far prevalere la loro razza. Se bambino, sarete solo un giocattolo in balia del loro capriccio, che non deve, in ogni caso, poter diventare adulto e potersi quindi vendicare, un giorno.
Ecco, pensate a questa situazione ed all’arrivo dei Caschi Blu. Pensate alla zona franca. Un posto ben presidiato, con grandi soldati equipaggiati a dovere, che sono lì per proteggervi. Anche voi avreste raccolto le poche cose che siete in grado di trasportare e vi sareste messi in viaggio. Assieme alle decine, centinaia poi migliaia di persone che si sono riversate a Srebenica nei primi mesi del 95. Alla fine erano decine di migliaia, accampate precariamente, ma al sicuro.

Intanto io e mia moglie avevamo appena superato le montagne russe della gioia e del dolore. All’inizio dell’anno, inaspettata, era spuntata un’ipotesi di terzo figlio. Prima un piccolo ritardo, poi il test a fugare ogni dubbio. Dentro di noi i sentimenti che si mettevano in moto tumultuosamente, i problemi pratici, bisogna che troviamo subito una casa più grande, ce la faremo con i soldi?, ce la farà tua madre a darci ancora una mano? Però il tutto era reso semplice dalla gioia immensa di un’altra vita in arrivo. Poi, quando nella nostra testa si era formato saldamente uno spazio per il nuovo venuto, ecco la sensazione di qualcosa che non va nella direzione solita. Le parole del medico, la conferma dell’ecografia. Il monitor ci mostra un’immagine chiara ed impietosa. Un grumo secco attaccato ad un picciolo, come quelle ciliegie che, a volte, non riescono a maturare e stanno lì, una piccola massa avvizzita, in attesa di cadere dall’albero. L’ospedale, il raschiamento ed un’emorragia che avrebbe potuto portarmi via anche lei. Momenti difficili, ma avevamo gli altri due e tante cose da fare insieme.

A Srebenica, in quei giorni, nulla era come sembrava. Forse i profughi non erano solo profughi, forse quelli che davano loro la caccia erano, ufficialmente, forze di polizia preposte alla protezione della popolazione, forse gli occidentali salvatori non avevano capito un’acca di tutta quella situazione e poi erano molto più interessati a quello che si diceva nei rispettivi paesi piuttosto che a quanto poteva succedere lì.
E’ stato così che è potuto accadere. E’ stato così che i soldati di Mladic hanno capito di poter osare e si sono presentati a Srebenica. E’ stato così che il comandante olandese del contingente si è fatto riprendere in un video a chiacchierare amabilmente con Mladic e brindare con lui, mentre i soldati serbi procedono alla separazione dei profughi mussulmani, da una parte gli uomini e dall’altra le donne.
E voi lì, guardate attoniti i vostri angeli custodi che fanno entrare gli aguzzini, che li aiutano, fino a dargli il carburante per i camion che vi debbono portare via. Li guardate senza riuscire a capire il perché. Voi lo sapete, voi avete occhi per vedere, voi non credete per un istante alla debole scusa accampata “li portiamo in posti più sicuri che qui non si possono tenere al sicuro così in tanti”. Vi chiedete come è possibile, siete annientati dal tradimento che si consuma sulla vostra carne, che vi strappa per sempre le persone che amate, che si porta via la vostra stessa vita.
A Srebenica si consuma la più grande vergogna del nostro Occidente opulento e distratto. Quei giorni di luglio del 1995 si sono portati via il nostro onore, la nostra dignità di esseri umani, la nostra capacità di indicare agli altri la via della democrazia, della convivenza. Leggere gli atti che cercano di spiegare il perché del mancato intervento dell’ONU, frugare fra i ritardi, la scarsa conoscenza dei luoghi, le indecisioni che hanno portato a questo, mi fa orrore. Ma bisogna avere la forza di non fermarsi, di continuare a frugare. Ecco allora la scarna cronaca che potete trovare oggi su Wikpedia: “Durante i fatti di Srebrenica, i 600 caschi blu dell'ONU, le tre compagnie olandesi Dutchbat I, II e III, non intervennero: motivi e circostanze non sono ancora stati del tutto chiariti. La posizione ufficiale è che le truppe ONU fossero scarsamente armate e non potessero far fronte da sole alle forze di Mladić. Si sostiene, inoltre, che le vie di comunicazione tra Srebenica, Sarajevo e Zagabria non fossero ottimali, causando ritardi e intoppi nelle decisioni. Quando i serbi si avvicinarono all'enclave di Srebrenica, il colonnello Karremans diede l'allarme e chiese un intervento aereo di supporto il 6 e l'8 luglio 1995, oltre ad altre due volte nel fatidico 11 luglio. Le prime due volte il generale Nicolaï a Sarajevo rifiutò di inoltrare la richiesta al generale Janvier nel quartier generale dell'ONU a Zagabria perché le richieste non erano conformi agli accordi sulle richieste di intervento aereo. Non si trattava ancora, infatti, di atti di guerra con battaglie a fuoco. L'11 luglio, quando i carri armati serbi erano penetrati nella città, Nicolaï inoltrò la domanda di rinforzi a Janvier, che inizialmente rifiutò. La seconda richiesta dell'11 luglio fu onorata ma gli aerei (F-16) che stavano già circolando da ore in attesa dell'ordine di attaccare avevano nel frattempo ricevuto ordine di tornare alle loro basi in Italia per potersi rifornire di carburante. Alla fine, solo due F-16 olandesi procedettero ad un attacco aereo, praticamente senza alcun effetto. Un gruppo di aerei americani apparentemente non fu in grado di trovare la strada”.
Più di ottomila persone hanno pagato con la vita questa nostra inettitudine. Tutte le altre, i sopravissuti, ne porteranno per sempre il marchio nella testa e nelle viscere.
Ed ancora una volta mi chiedo “Tu dov’eri?”. Se le decisioni dei comandanti dei Caschi Blu erano (e sono ancora oggi negli altri posti dove si continua fare la guerra) orientate dagli umori dell’opinione pubblica dei rispettivi paesi, come posso pensare di essere innocente, di non aver colpe, di poter continuare la mia vita come se niente fosse. Una scrollata di spalle e via. Tanto sono cose lontane e quelle poi non sono persone, sono come delle bestie.

sabato 11 giugno 2011

Siamo meglio di Haiti!

In questi giorni ha fatto clamore la nuova copertina dell'Economist dedicata al nostro Presidente del Consiglio. Si è, natualmente,scatenata la solita gazzarra. Denigratori e difensori del Cavaliere si sono affrontati nella consueta cacofonia che tutto annacqua. E nella caciara si è persa l'unica informazione vera, quella che ci mette davanti a noi stessi, alle nostre responsabilità come paese e come singoli.

E' contenuta nello speciale dedicato all'Italia (che potete consultare cliccando qui). La riporto in originale:


Between 2000 and 2010 Italy’s average growth, measured by GDP at constant prices, was just 0.25% a year. Of all the countries in the world, only Haiti and Zimbabwe did worse.

Tradotto suona più o meno così: "Fra il 2000 e il 2010 la crescita media dell'Italia, misurata come prodotto interno lordo (PIL) a prezzi costanti, è stata appena dello 0,25% per anno. Di tutti i paesi del mondo solo Haiti e Zimbawe hanno fatto peggio".

Questo è lo specchio in cui dobbiamo avere il coraggio di guardarci.

sabato 28 maggio 2011

IL LINGUAGGIO DELLA SCRITTORE (poche idee e un po' confuse)

Donna che scrive - J. Vermeer
Comincio qui una mia nuova digressione sulla scrittura, sempre partendo da una sollecitazione esterna. Questa volta è Medina che mi scrive una mail accorata, che sintetizzo così:

“Ho pensato che il mio modo di scrivere è arcaico e stucchevole, soprattutto nei flashback dove c’è più realtà che fantasia. A me piace, ma forse dovrei vivacizzarlo un po’? Capisci l’importanza di pezzi ‘freschi’ un po’ più corposi? Probabilmente lo stile che piace ai ‘Young-adult’ (target di mercato editoriale) è un altro.”
Qual è, quindi, il linguaggio giusto?
Partirò dicendo che è giusto un linguaggio adeguato allo scopo che ci si prefigge. Se si pensa ad un preciso segmento di lettori - gli young adult, ad esempio – è evidente che si debba utilizzare uno stile di scrittura, un linguaggio che risulti riconoscibile, che sia vicino alle aspettative di quello specifico gruppo. Se lo scopo è il successo, un successo ampio, enorme, mondiale, come quello della Rowling, saremo costretti ad usare un linguaggio alla portata di tutti, non particolarmente settario.

Lo scopo è importante. Sia a livello generale, che per la singola opera. Giusto per chiarire il concetto, quando cito il livello generale, parlerò un po’ di me stesso. Io ho cominciato a scrivere circa un anno e mezzo fa. La mia si può definire una vocazione tardiva, nata per un’esigenza interiore, per avere uno spazio mentale tutto mio. Non per pubblicare o per puntare al successo. Tuttavia, ho avuto in mente da subito un mio obiettivo, smisuratamente ambizioso. Quello di trovare un linguaggio adeguato ai tempi che stiamo vivendo. Tempi di grandi cambiamenti, probabilmente molto più grandi e profondi di quello che ci appare. I nuovi mezzi (Internet, Wikipedia, Facebook ecc…), la globalizzazione (e tutto ciò che ruota intorno a questo) stanno cambiando l’uomo. Il suo modo di pensare, di vedere la realtà, i suoi valori ed obiettivi, le regole del gioco. Tutto cambia in fretta e noi oggi non abbiamo occhi per vederlo. In questo l’arte, tutte le arti, sono terribilmente indietro. La musica, che normalmente è la prima a cogliere il nuovo, è ferma a quarant’anni fa. Non parliamo del resto. Ecco, il mio sogno è quello di trovare un linguaggio che sia in grado di svelare queste novità. Medina, che conosce il mio stile di scrittura, può ben valutare quanto questa ambizione sia abissalmente distante dall’essere realizzata. Perciò sento che la mia scrittura è antica e inadeguata. Ma non smetto di sperimentare approcci differenti, anche se so che non raggiungerò mai l’obiettivo.

Il linguaggio è il modo con cui si trasmette il messaggio e le emozioni che si vogliono suscitare. Per cui diventa terribilmente importante. Basta pensare al Bob Dylan degli inizi degli anni ’60 come risultava “giusto”, soprattutto se paragonato alla musica ufficiale che passava alla radio ed in TV nell’Italia di quegli anni. O cercare di immaginarsi come sarebbe stonato l’utilizzo del linguaggio (pur sublime!) di Guy de Moupassant in un racconto di oggi. I linguaggi si consumano e si rinnovano, come tutte le cose. Non esistono modelli, né si possono confezionare ricette. La magia dello scrittore (quello vero, ahimè!) sta proprio nel trovare il linguaggio che è in grado di trasportare l’idea dentro il cervello e dentro la carne del lettore.
E allora, quali caratteristiche deve avere lo stile narrativo? Per spiegarlo ricorrerò ancora a quel fondamentale libretto che è “Lettere a un aspirante romanziere” di Mario Vargas Llosa. Dice l’autore che uno scritto è buono se ha un forte potere di persuasione. Perché lo stile della scrittura deve portare il lettore ad uno stato di sospensione (più o meno profondo) che gli consenta di vedere come reali i fatti che gli vengono narrati, anche se assolutamente fantastici. Solo se si crea questa magia si ha una vera opera di finzione. E’ questo stato di sospensione (che tutti noi abbiano provato leggendo qualcosa che ci piaceva) che fa passare le emozioni. “L’efficacia della scrittura romanzesca dipende da due fattori: la sua coerenza interna e il suo carattere di necessità”. Come spiegarlo meglio! Llosa si dimostra uno scrittore formidabile anche quando parla di questioni che sarebbero aridamente tecniche (assieme a questo suo libro mi hanno regalato anche il “Ricettario di scrittura creativa” di Stefano Brugnolo e Giulio Mozzi. Ebbene, quest’ultimo l’ho trovato affatto interessante, nonostante sia ben documentato ed assolutamente completo. Ha lo stesso calore di un libretto di istruzioni). Ma torniamo a noi.
Due fattori, dicevamo. Il primo è quello che Llosa chiama la coerenza interna. Cioè uno stile di scrittura adeguato a quello che si vuole raccontare. Non possiamo usare lo stesso linguaggio in un racconto biografico e, mettiamo, in un thriller. In una delle due opere otterremo un fastidioso senso di inadeguatezza che annullerebbe immediatamente la forza di persuasione dello scritto.
Medina avrà certo capito che non ho fatto questo esempio per caso. Il fatto è che, nel pensare alla sua domanda e man mano che mi risultava chiaro quello che avrei dovuto scriverle in risposta, mi sono accorto (ahinoi!) di un problema. Gli scritti a cui lei si riferisce nella sua mail (“soprattutto nei flashback dove c’è più realtà che fantasia”) fanno parte di un romanzo giallo che stiamo scrivendo a più mani. Leggendoli separatamente dal resto, sono molto belli ed estremamente interessanti. Ho sempre avuto però anche un vago smarrimento, che solo ora comprendo. Questi pezzi sembrano scritti per un progetto diverso, forse un’autobiografia e portati di peso all’interno del giallo. Intendiamoci, con questo non voglio assolutamente stroncarli. Sono, ripeto, assolutamente validi ed hanno dato l’indirizzo complessivo alla narrazione. Ma mi permetto di suggerire a Medina di rivederne proprio il linguaggio in funzione dell’opera che li contiene.

Il secondo fattore è il carattere di necessità. Ovvero quella persuasione, che il lettore fa sua, che quelle cose non possano essere raccontate che in quel modo. Che ogni altro linguaggio toglierebbe loro qualcosa. C’è un libro che amo molto, “Anni di cani” di Gunter Grass. Un libro ponderoso, di oltre 500 pagine, critto con uno stile puntuto, aspro: “La catena è già tirata: la voce del cane. La voce di Tulla. La sega circolare addenta una bora lunga cinque metri. La rettificatrice tace ancora. Adesso anche lei. Adesso la fresa. Ventisette passi di distanza fino alla porta del cortile”. Non saprei davvero come si possa raccontare in un modo diverso quella storia sulle contraddizioni della coscienza tedesca negli anni difficili del dopoguerra.

Altro sublime esempio, più vicino a noi ci viene da Camilleri, che è capace di inventarsi una lingua per calarci dentro alle atmosfere sicule del suo Montalbano “La chiamò al cellulare, ma arrisultò astutato. Anzi, per la precisione, la voci registrata disse che la pirsona chiamata non era raggiungibile. E consigliava di riprovare doppo tanticchia. Ma come si fa a raggiungere l'irraggiungibile? Solo provando e riprovando doppo tanticchia? Al solito, quelli dei telefoni tiravano a praticare l'assurdo. Dicevano, per esempio: il numero da lei chiamato è inesistente… Ma come si permettevano un'affermazione accussì? Tutti i nummari che uno arrinnisciva a pensari erano esistenti. Se veniva a fagliari un nummaro, tutto il mondo si sarebbe precipitato nel caos. Se ne rendevano conto quelli dei telefoni, sì o no?”.
Questa abile costruzione lessicale ci da l’impressione di essere entrati nella testa di Montalbano, di seguire i suoi ragionamenti nello stato naturale in cui si svolgono. Questo è il suo carattere di necessità.

Come possiamo facilmente capire non esiste una ricetta a cui attenersi per dare questo carattere di necessità al nostro linguaggio. Scrivere è un’arte anche per questo motivo.

mercoledì 18 maggio 2011

(sens) azioni [gianbarly]

Paolo Rigoni - s.t.
Mi rigiro lentamente il foglio fra le mani. E’ un comune foglio di carta, ma lo guardo come se non ne avessi mai visto uno in vita mia. Lo tasto a lungo, strofinandone la superficie fra pollice ed indice. La carta è un po’ più spessa del normale, forse è da 90 grammi. La superficie bianca non mostra imperfezioni, i lati sono diritti, squadrati, come dev’essere. Solo il lato superiore è sfrangiato. Passo il dito sulle piccole asperità seghettate, rimaste dopo che è stato staccato dal blocchetto. Osservo le parole che ci sono scritte sopra, ma senza cercare di leggerle. L’inchiostro ha tracciato una serie di piccoli arabeschi sopra il bianco assoluto della carta. Piego il foglio di lato per scoprire se le scritte siano in rilievo, ma non riesco a capirlo. Allora chiudo gli occhi e passo il dito sulla superficie cercando di trovare il punto dove stanno le parole.

sabato 7 maggio 2011

Racconti brevi (risposta a Nunzio)

Caro Nunzio,
alla mia impudenza nel commentare su Poesie&Racconti il tuo bel racconto Angela, tu hai risposto chiedendomi di aiutarti nel trovare cosa c’è che non va. Sfida impegnativa, cui però non voglio, per svariati motivi, sottrarmi. In primis, per l’affetto ed il rispetto che ho nei tuoi confronti, che ti sei conquistati sul campo con i tuoi eccellenti lavori. Poi, e non è cosa da poco, perché quelli che tu lamenti come tuoi difetti nello scrivere, sono anche i miei. Per cui, se riesco ad aiutare te, allo stesso tempo aiuto anche me stesso. Noi siamo dilettanti, non scrittori professionisti, ma questo non ci preclude la ricerca costante della perfezione.

Partiamo da un concetto su cui, credo, possiamo concordare: scopo di una narrazione di fatti inventati o romanzati è quello di trasmettere emozioni al lettore, attraverso il meccanismo del suo coinvolgimento nella lettura. Egli deve, in un certo senso, dimenticarsi si stare leggendo un testo scritto da altri, su cui fare un’analisi critica (come succede per esempio con i testi scientifici). Lo stile della scrittura lo deve portare ad uno stato di sospensione (più o meno profondo) che gli consenta di vedere come reali i fatti che gli vengono narrati, anche se assolutamente fantastici. Tutti noi abbiamo volato in groppa ad una palla di cannone assieme al barone di Munchausen!
Vargas Llosa, nel suo “Lettere ad un aspirante romanziere” dice che il racconto deve possedere il potere di persuasione. Esso serve ad “accorciare la distanza che divide la finzione dalla realtà e, cancellando quella frontiera, far vivere al lettore quella menzogna come se fosse la più imperitura delle verità, quella illusione la più consistente e solida descrizione del reale”.
Il riuscire in quest’opera di magia è compito dello scrittore. Per farlo egli deve dare credibilità (ripeto, anche se su un piano assolutamente fantastico) a ciò che avviene e poi fare attenzione a tutti quei “difetti” che possano essere di inciampo nella lettura, rompendo lo stato di straniamento del lettore. Parlo di difetti intendendo tutto ciò che non è voluto da chi scrive. E’ evidente che ci sono stili di scrittura volutamente difficili, poco scorrevoli ecc. che possono comunque (e magari proprio in base a ciò) raggiungere lo scopo della narrazione. Non di questo stiamo trattando.

Quali sono questi difetti? Sono, ad esempio, le frasi malamente legate le une alle altre. Sono i passaggi poco chiari, che richiedono uno sforzo eccessivo al lettore per riuscire a tenere il filo della narrazione. Sono le descrizioni incongruenti, sia tanto (dico che il protagonista è abbagliato dal sole in una scena ambientata di notte) che poco (un errore di ambientazione storica, piccolo ma sufficiente a mettere sull’allerta i sensi del lettore). Sono i salti temporali, di punto di vista, di ambientazione non correttamente calibrati.
In un romanzo oppure in un racconto di una certa lunghezza una modica quantità di tali errori non inficia il valore dell’opera. La dimensione, il respiro di questi lavori è in grado di assorbire e neutralizzare questi difetti. Ma il racconto breve non se li può permettere. La sua stessa esiguità di materia prima (parole e frasi) fa sì che essa debba essere utilizzata tutta al meglio. Ogni frase, ogni virgola deve andare al posto giusto, perché non ci sono spazi per recuperare.

Mi è capitato di riascoltare dopo lungo tempo la canzone “Incontro” di Guccini. Non so se ti piace il genere e se tu la conosca, ma la cito perché fa al nostro caso. Una canzone in effetti è un breve racconto. Riascoltandola mi ha colpito la perfezione stilistica letteraria con cui è costruita.


E correndo m’incontrò lungo le scale
quasi niente mi sembrò cambiato in lei …

L’incipit racchiude tutto quello che sto cercando di dirti: in due frasi l’autore pennella una scena di cui entriamo immediatamente a far parte. La casualità dell’incontro, la sorpresa, lo studiarsi, il lungo tempo passato. Con due sole parole “correndo” e “scale” Guccini disegna un intero scenario. Possiamo immaginarci che sia alla stazione, in una metropolitana o un altro luogo pubblico, in ogni caso il lettore ha davanti una scena compiuta. Le parole scivolano una dietro l’altra in maniera assolutamente naturale, quasi siano legate da un reciproco obbligo, se ce ne è una ci deve necessariamente essere anche l’altra. E questo nonostante ci sia fra la prima e la seconda un cambio di punto di vista. Prima è lei che lo incontra poi è lui che la osserva. Le due strofe successive chiudono un racconto che potrebbe già definirsi completo.

la tristezza poi ci avvolse come miele
per il tempo scivolato su noi due

Nota che c’è un secondo salto di punto di vista (lei-lui-loro) ma anche questo scivola via lievemente. L’arte dell’autore sta nell’uso sapiente di questi strumenti stilistici per rendere a pieno l’intensità del momento.

Veniamo ora a noi. Ciò che ti ho detto finora mi aiuta a comprendere finalmente cosa c’è nel racconto che non mi convince fino in fondo. Prima di proseguire debbo però avvertirti che ci stiamo inoltrando su di un terreno così impalpabile, così dominato dalle sensibilità e dai gusti personali che non sarebbe strano trovare opinioni assolutamente diverse dalla mia. Quindi ciò che scrivo è solo una opinione, per giunta neppure supportata da una qualche forma di autorità. Non me ne volere.
Ho riletto più volte il tuo racconto e dirò subito che più lo leggo e più mi piace. Ovvero ne capisco meglio la struttura, le intenzioni e quindi i lati positivi prendono decisamente il sopravvento su quelli che critico.
Ma, ahimè per te caro Nunzio, non credo che questo sia un complimento, perché mette in luce quel difetto che, nel racconto breve, diventa importante: viene richiesto uno sforzo di comprensione che, alla prima lettura, vanifica in parte il potere di coinvolgimento.
Mi spiego: il racconto può essere diviso in parti, separate fra loro da un salto temporale. I tempi dell’azione sono tre (il presente, un passato prossimo e un passato un po’ più prossimo). Tu hai usato l’intreccio di questi tre piani temporali per costruire la tua magia.
La sequenza è: passato prossimo – presente - passato prossimo – presente - passato prossimo – presente – passato prossimo –passato un po’ più prossimo – ecc..
In questo intreccio manca qualcosa, oppure è fuori posto, perché i salti non appaiono subito chiari (e necessari) come quelli di Guccini di cui sopra.
Poi, a mio avviso, c’è qualcosa di più rilevante quando passi al terzo tipo temporale, quello che ho chiamato passato un po’ più prossimo. Il tempo usato è l’imperfetto, lo stesso del passato prossimo, togliendo al lettore la possibilità di comprendere il salto. Inoltre c’è forse una carenza nel far capire il perché lui ha avuto bisogno di un’altra donna, una di carne ed ossa, perdendo così Angela. Questo toglie credibilità al racconto, quel potere di persuasione così necessario (come dice Vargas Llosa).

Questo è ciò che riesco a dirti. Non mi chiedere però quale sia la soluzione. Purtroppo non la so (altrimenti sarei uno scrittore) e, comunque, quella te la devi trovare da solo. Solo tu, che ne sei l’autore, che sei il padre dei protagonisti e che ne conosci più di chiunque altro l’animo, puoi provare ad intervenire. Se ci riuscirai con successo mi farai immensamente felice.