L'incontro - Clod |
Avevo un disperato bisogno di riflettere. Intorno a me le cose si
muovevano con una velocità impressionante ed io non riuscivo a capire con
chiarezza quello che avrei dovuto fare.
Quel pomeriggio, approfittando dell’ennesima commissione che l’Antonia mi
aveva affibbiato, mi ero preso una pausa. Non mi pesava la sua espressione di
acida soddisfazione nei miei confronti che aveva da quando alla tele erano
cambiati gli equilibri. In realtà la cosa mi lasciava indifferente perché non
riuscivo a capire come una persona potesse cambiare così il proprio
atteggiamento, mostrando più o meno simpatia per qualcuno in base ad astrusi
equilibri di potere. Non mi capacitavo che qualcuno potesse dar peso a cose
così meschine. Da parte mia mi limitavo semplicemente a fare il mio lavoro,
schivando quanto più possibile le beghe interne alla redazione.
Mi pesava piuttosto il senso di frustrazione che mi stava attanagliando.
Cercavo di mettere a fuoco il motivo di tanta insoddisfazione, ma con scarsi
risultati. Espletata in fretta la commissione mi ero ripromesso di fare una
passeggiata sul lungofiume, in cerca di un po’ di tranquillità. Avevo evitato
appositamente la parte che ero solito frequentare e mi ero spostato verso i
quartieri ottocenteschi, dove i grandi palazzi dalle severe facciate istoriate
ed i giganteschi platani che si protendevano sul fiume mi avrebbero dovuto trasmettere
un po’ di tranquillità. Invece ero agitato, non riuscivo a fermarmi a
sufficienza su un singolo fatto. Avevo un terribile affollamento di pensieri e
le immagini si sovrapponevano le une alle altre impedendomi di trovare un po’
di quiete.
Un improvviso rumore mi fece trasalire. Il rombo di una moto che decelera
rabbiosamente mi fece voltare. Riconobbi al volo la Husqvarna di E che era salito con noncuranza sul
marciapiede e si stava fermando al mio fianco. Messo un piede a terra, E si
sfilò il casco e mi guardò con il suo solito sorriso ironico. Istintivamente
scrollò la testa per sistemare i suoi boccoli rasta. Debbo dire che così
fasciato nella tuta di pelle, a cavalcioni del suo mezzo, sembrava proprio un
cavaliere sbucato da una favola. Un angelo venuto dal cielo a proteggere i
poveri mortali. Provai una fitta acuta.
“Eccoti qua” mi disse
“Ciao” risposi di controvoglia, aspettando.
Lui mi squadrò per un secondo, poi, come preso da un pensiero improvviso:
“Già che ci sei, sai mica dov’è Paolo?”
“No, non ne ho idea. Ma perché non lo cerchi al cellulare?”
“Già fatto” disse alzando le spalle “ma non importa”
Ebbi però la sensazione che invece gliene importasse e come. Era agitato,
anche se cercava di non darlo a vedere.
Mi squadrò ancora e poi mi disse
“Via Franchino, ti lascio ai tuoi pensieri”
Si rimise il casco e si dileguò così come era venuto.
Il fatto che ancora una volta mi avesse letto così facilmente nel cuore,
non fece che aumentare la mia agitazione. Ripresi a camminare cercando di
scacciare l’immagine di lui in sella alla moto. Mi dava fastidio. Mi sforzavo
di pensare a me stesso ed invece vedevo Paco alle prese con i drammi della sua
arte, poi il bel volto di Lourdes che mi chiamava al mio dovere nei suoi
confronti. Per cercare di spezzare quel circolo mi imposi di osservare con
attenzione quello che mi stava intorno. Ero all’altezza del Circolo Canottieri.
Dall’altro lato della strada un imponente palazzo color ocra risaltava su
quelli vicini. Al di sopra del portone, due statue monumentali sorreggevano un
bovindo. Alcune finestre erano aperte e lasciavano intravedere un ampio salone
con i soffitti mirabilmente decorati. Mi domandavo se tanta magnificenza fosse
di un privato o appartenesse ad una banca o qualche altra ricca società. Sulla
mia sinistra il fiume si mostrava particolarmente tranquillo ed i canottieri
stavano uscendo con i loro mezzi per gli allenamenti pomeridiani. Mi
ritornarono in mente i giorni dell’alluvione, quando avevo cominciato a
lavorare alla tele. Non era passato molto tempo da allora, ma mi sembrava di
essere un’altra persona. Solo che non riuscivo a capire se migliore o peggiore.
C’era qualcosa che non funzionava, me lo sentivo. Ero in collera con me stesso
perché non riuscivo a identificarne il motivo. I miei pensieri continuavano a
girare a vuoto. Osservavo quelli che facevano jogging sull’ampio lungofiume con
le cuffiette d’ordinanza, chiusi in una bolla di tranquillità, dove il tempo
era scandito dal battere ritmico dei piedi sul selciato. Provavo un po’ di
invidia perché era quello di cui avrei avuto bisogno io, in quel momento. Fare
jogging non mi era mai piaciuto, ma ora avrei dato non so cosa per una qualche
attività fisica su cui concentrarmi in modo da sfuggire ai miei tormenti di cui
non riuscivo a mettere a fuoco il motivo.
Ma il motivo, in carne ed ossa, mi si parò davanti all’improvviso.
“Sapevo di trovarti qui” mi disse Fimère squadrandomi severa.
Era comparsa dal nulla e mi si era piantata davanti con l’aria di chi non
ammette repliche. Non provai nemmeno a mostrarmi sorpreso. Evidentemente ero
una persona prevedibile, anche quando credevo di fare qualcosa di insolito,
fuori dagli schemi.
Guardai senza dire una parola la sua bella figura che esigeva una
spiegazione.
“Allora?”
Io una spiegazione non ce l’avevo. Preso così, alla sprovvista, non
riuscivo nemmeno a valutare se e quanto mi piacesse. Provavo solo un senso opprimente
di vergogna, la sensazione di aver fatto qualcosa di orribile, di averla ferita
senza alcun motivo. La tensione sul suo volto ne risaltava la bellezza e mi
diceva quanto lei fosse viva e determinata. Io invece ero totalmente passivo,
incapace anche solo di scusarmi per non averla più chiamata. Per una frazione
di secondo mi passò per la mente che avrei dovuto provare a reggere il
confronto. Nella mia situazione E le avrebbe fatto capire con una mezza frase
che, se non l’aveva più cercata, era perché non gli interessava. Se la sarebbe
cavata da uomo. Quel pensiero non fece altro che aumentare il mio senso di
vergogna. Cercavo di articolare una qualche parola ma non ci riuscivo.
Lei aspettò ancora qualche secondo. Per un tempo che a me sembrava
infinito restò ferma, protesa verso di me in un atteggiamento di sfida. Poi
iniziò a scrollare la testa mentre un’espressione di disgusto le si andava
formando in viso. Alzò appena le spalle e poi si voltò lentamente
allontanandosi senza fretta. Con me aveva chiuso.
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