Mentre si incamminavano disse a Paolo del suo problema. Lui lo stette a sentire poi disse semplicemente
“Ci penso io”
Francesco si sentì sollevato. Ora doveva concentrarsi solo sulla parte tecnica, sull’intervista. A tutto il resto ci avrebbe pensato Paolo.
Lungo la strada raccattarono un bel po’ di gente. Succedeva sempre così. Bastava farsi vedere, buttare lì una frase e le serate si animavano. Una delle prime ad unirsi a loro era stata Fimère. Li aveva visti da lontano e si era fiondata verso di loro. Aveva fatto un gran sorriso a Francesco prendendolo a braccetto. Il contatto stabilì immediatamente una piacevole intimità. Fimère aveva quasi la sua età ed era graziosa. Aveva tratti mediterranei, fatti di neri intensi e di lampi di luce. Era spigliata, ma con una serietà di fondo che la rendevano interessante. Sapeva trattare qualunque argomento in modo semplice, ma dandogli sempre il suo punto di vista. Parlare con lei era un’esperienza eccitante. Francesco la trovava allegra e divertente, in sintonia con quello che lui pensava, nonostante la provenienza da una cultura diversa. Lei era algerina, tuttavia risiedeva da tempo in città. I suoi erano scappati dall’Africa al tempo delle stragi dei fondamentalisti. Le avevano dato un’educazione laica, aperta ai costumi occidentali, anche se con attenzione e rispetto per le tradizioni. Credevano nella possibilità di traghettare il meglio della loro civiltà nel mondo moderno, senza per questo scimmiottare le modalità dell’Occidente.
“Mio padre e mia madre si sono battuti a lungo, nell’Università dove lavoravano, per far comprendere che i nostri costumi si possono evolvere senza tradirne le origini. Loro cercavano di far capire, prima di tutto ai loro colleghi ed ai politici, che la strada dell’integralismo è senza uscita, al pari di quella dell’occidentalizzazione forzata. Mio padre, quando era al colmo di una discussione tirava fuori la sua espressione preferita – lo chador è l’altra faccia della coca cola! – pensando di dire una parola definitiva sull’argomento. Purtroppo non è stato così. Nonostante avesse avuto una grande influenza e fosse discretamente famoso, si è ritrovato isolato e quando hanno cacciato mia madre dall’Università, impedendole di insegnare, ha deciso che era ora di andare via”.
Camminavano in mezzo agli altri chiacchierando fittamente. Francesco sentiva il suo profumo arrivargli ad ondate e pensò che avrebbe dovuto prendere una qualche decisione in merito a lei. Doveva ammettere che Fimère gli piaceva. Non era sicuro di esserne innamorato, ma si era ritrovato più volte a pensare a lei, negli ultimi tempi. Ma non quella sera. Dopo le parole di Paolo aveva per la testa solo la questione di Paco.
Appena dentro al locale andò dal musicista per accordarsi sul proseguimento dell’intervista. Paco de Luna gli rispose distrattamente, impegnato com’era negli ultimi preparativi.
Il posto era già affollato. In effetti c’era sempre molta gente, anche quando non si suonava. Era uno di quei rari locali che piacevano indistintamente a tutti i frequentatori della notte. Ci ritrovavi i fighetti della nuova borghesia, sregolati e prepotenti, come pure certi fossili del ’68, strani esseri che si rifacevano agli stessi modelli di quando erano giovani i loro genitori. Ci venivano gruppi di studenti in libera uscita e compagnie di impiegati delle aziendine di servizi che avevano invaso il centro storico.
Paco aveva cominciato lo spettacolo, accompagnato dalla chitarra e dai tre componenti della sua band. Aveva una voce suadente, appena arrochita dal troppo uso, che si adattava perfettamente al suo ruolo di sottofondo musicale.
Francesco, per abitudine, cominciò a scrutare la sala, per capire chi c’era. Lo faceva sempre, senza per questo estraniarsi dalla sua compagnia. Era come se intervallasse la conversazione con delle brevi pause in cui faceva le sue osservazioni.
Alla loro destra c’era un gruppo piuttosto numeroso, ad occhio e croce colleghi di lavoro che si ritrovavano per festeggiare qualcosa insieme. Spiccavano dagli altri una ragazza con i capelli a caschetto ed un tipo alto, atletico. Si vedeva chiaramente che erano loro a tenere banco. La donna parlava a raffica, senza rivolgersi in particolare a nessuno dei presenti. L’altro si intrometteva di tanto in tanto, ma con battute così efficaci da attirare immediatamente tutta l’attenzione.
Sulla sinistra, nel lato più distante dal palco, c’erano delle coppie, sedute ciascuna al suo tavolino. Alcuni conversavano guardandosi intorno, altri erano persi l’uno negli occhi dell’altro. Una coppia in particolare attirò la sua attenzione perché stava discutendo animatamente. Più che altro era lei che parlava con veemenza, pur cercando di mantenere basso il tono di voce, mentre lui la ascoltava provando ad esporre di tanto in tanto le sue ragioni.
Al centro della sala c’era un folto gruppo, piuttosto eterogeneo. Nella maggior parte erano probabilmente studenti universitari. C’erano alcune ragazze vestite “minimal” ed altre con capi firmati, ragazzi in jeans con altri che invece se la tiravano in stile grande Gatsby. Tutti parlavano contemporaneamente facendo una grande confusione.
Dietro a quella cacofonia di rumori risuonava la voce profonda di Paco. Le sue erano canzono lente, che parlavano di un tempo sospeso, di attimi eterni in grado di far sviluppare le emozioni lungo tutte le gradazioni possibili. Di gesti che si compiono secondo i ritmi segreti di un’antica saggezza. Cantavano l’attesa, come il momento più bello e struggente. Indicavano la necessità di fermarsi per poter cogliere il significato nascosto delle cose, l’armonia delle forme che ci circondano, la sconvolgente bellezza dei piccoli dettagli.
La maggior parte dei clienti non prestava alcuna attenzione ne’ a lui ne’ tantomeno alle sue canzoni. Però Francesco poteva cogliere qua e là qualche sguardo assorto, intento ad assorbire quella musica.
Nel gruppo aziendale la competizione fra la brunetta ed il tipo atletico era a massimo. I due avevano il busto in avanti, i loro gesti denotavano una forte tensione. La donna giocava tutto sulla velocità, sui giudizi tranciati di netto, sulla divisione fra quello che è nuovo, moderno, giusto e quello che era invece da buttare via. Francesco ci avrebbe giurato, era lei che normalmente dettava a tutti gli altri i canoni del loro pensiero. Si vedeva da come alcuni di loro la guardavano, lei era la fonte da cui attingevano quotidianamente il loro sapere. L’altro non la seguiva su quel terreno, in cui lei era maestra. Aspettava il momento giusto per poi buttare lì le sue provocazioni, quelle osservazioni caustiche capaci di scombinare il ragionamento della collega. Si vedeva che si divertiva a scompaginarne il filo del discorso, probabilmente con la prima cosa brillante che gli veniva in mente. Che poi argomentava con indubbia capacità.
Molti degli ascoltatori erano combattuti. Dalla donna sapevano di avere un continuo rifornimento di notizie e di giudizi salaci ma lui li faceva divertire di più. Ora la donna si prendeva delle pause più lunghe. Gli altri davano ormai segno di insofferenza quando lei provava a ripartire. Così lei si zittì completamente, iniziando di lì a poco a sbadigliare platealmente. Poi se ne andò, seguita da due o tre fedelissimi. Mentre passava la sentì commentare
“Che noia. Questo posto è diventato un cesso!”
L’atmosfera nel locale era impercettibilmente cambiata. L’elettricità dei primi momenti si era placata. Ora le persone sedevano più rilassate, i muscoli distesi, i gesti più misurati, le parole più calme. Qualcuno si gustava in silenzio la musica.
La coppia sulla sinistra aveva smesso di litigare. Era lui ora a parlare, lentamente, indicando a tratti verso il palco.
Un’altra coppia, forse un manager con una compagna clandestina, se ne era andata dopo che lui aveva guardato tre o quattro volte l’orologio. Nella compagnia al centro era terminata un’accesa discussione su come proseguire la serata. Una parte fremeva per cambiare ambiente mentre gli altri non vedevano motivo di spostarsi. Alla fine si erano divisi e quelli rimasti si erano messi più comodi nello spazio lasciato libero. Lì ognuno trovava poco a poco un modo nuovo di mettersi in mostra.
La conversazione, anche al suo tavolo, si era rianimata ma senza affanno. Era stato introdotto un nuovo argomento e tutti volevano parlare delle loro esperienze in quel campo. Chi stava parlando era delicatamente interrotto da un altro, che riteneva di avere un episodio più interessante da raccontare. Nessuno però si sentiva in competizione. Chi ascoltava, rideva e commentava, aspettando il momento opportuno per inserirsi.
Paco continuava a cullarli con i suoi ritmi lenti, ora con una rumba piena di struggimento e di promesse, ora con una milonga assassina. Le canzoni parlavano di anime solitarie, chiuse al mondo. Di amori finiti o mai cominciati per l’incapacità di uno dei due ad uscire dal guscio delle proprie difese. Delle occasioni perse, delle situazioni che si guastavano per un gesto non fatto, una parola non detta. Dei rimpianti e dell’aridità di cuori che non avevano saputo lasciasi andare, che non erano in grado di battere in sintonia con gli altri. Erano storie tristi, dove i protagonisti erano soli nel mare della folla. Invogliavano a guardarsi dentro, a fare bilanci per comprendere cosa siamo veramente, una volta gettata la maschera che ci protegge nella vita di tutti i giorni. A prendersi tutto il tempo necessario, per poter comprendere quello che di sbagliato c’è nel nostro quotidiano incalzare.
A poco a poco il locale si era svuotato. Non c’era più la calca di quando erano entrati. Molti avventori se ne erano andati alla chetichella. I gruppi prima così numerosi erano ora ridotti a poche persone. Si poteva così apprezzare quanto l’ambiente fosse spazioso. Chi era rimasto sedeva mollemente sui larghi divani. Le conversazioni continuavano lente, con lunghe pause, nelle quali sembrava che ognuno fosse assorto in chissà quali pensieri intimi. Si buttava lì una frase ogni tanto, come si butta un rametto secco nel fuoco, per non farlo spegnere del tutto.
Francesco si sorprese a pensare alle strane storie che si intrecciavano nella vita di TeleCittà, a Maria, a Giuliana ed anche a Lourdes e a Paco. E poi a se stesso. Gli sembrò così di scoprire un nuovo modo di vedere le cose. In effetti, fino a quel momento, era sostanzialmente contento di sé e della sua vita. Aveva l’amicizia di Paolo e conosceva un sacco di persone interessanti. Il lavoro alla tele era impegnativo, ma gli consentiva di fare cose sempre nuove. Non si annoiava di sicuro. Però le note arrochite di Paco avevano il potere di suggestionarlo, spingendolo a chiedersi se era felice. Se tutti quei contatti che aveva, potessero essere di vera comunione con quelli che chiamava i suoi amici. Poteva dire di conoscere veramente a fondo qualcuno, in quella stanza? Sì, anche lo stesso Paolo, con cui divideva i suoi pensieri. L’aveva visto, prima, con E scambiarsi segnali in un codice diverso dal suo. Qualcosa che quindi gli sfuggiva, a cui non era ammesso. Era vera amicizia, quella? Forse c’era in lui qualcosa che non andava, qualcosa di molto nascosto, che finora non aveva compreso. Forse non sapeva vedere gli altri. Non li osservava nella maniera giusta e non li stava a sentire. Li guardava senza vederli realmente. Era troppo impegnato ad osservare se stesso, a studiare le sue proprie reazioni per accorgersi di quelle degli altri.
Allora si guardò in giro, cercando di proposito di carpire lo stato d’animo di chi gli stava intorno. Colse molti sguardi assorti, come intimoriti di una scoperta simile alla sua. Le conversazioni erano veramente ridotte al minimo, come se tutti provassero, improvvisamente, un senso di vergogna nel manifestarsi agli altri.
Proprio in quegli attimi la musica di Paco cambiò ancora. Con variazioni impercettibili di suoni, attaccò storie che parlavano di persone semplici, della bellezza che si può scoprire in chi ci passa accanto, dell’importanza capitale di saper cogliere la ricchezza di sentimenti e gli insegnamenti che ciascuno può darci. La tristezza delle melodie precedenti lasciò il passo a note cariche di umanità, dove ogni storia diventava importante, preziosa ed unica. Cantava l’irripetibile bellezza di ogni vita, la gioia di incontri casuali, della scoperta di nuove ed interessanti prospettive che solo l’altro ci può dare.
La voce profonda del cantante si fondeva perfettamente con le note intense della chitarra. Lo strumento sembrava ora possedere una propria vita. Le sue corde erano tese allo spasimo per arrivare a dare il giusto colore ad ogni suono. Il legno perfetto e levigato della cassa rimandava le vibrazioni arricchite di nuove e variopinte tonalità. L’insieme che ne scaturiva era di una forza quasi magica. Le parole raccontavano semplici azioni quotidiane, con le piccole miserie capaci di avvelenare l’esistenza dei protagonisti e con le gioie altrettanto piccole, necessarie a renderla almeno sopportabile. Eppure da quei frammenti di vita emanava un forte senso di speranza, la gioia di esseri in sintonia, che trovano nella comunanza del sentire una forte ragione di vita.
Francesco faceva vagare il suo sguardo da uno all’altro degli avventori rimasti nella sala. Incrociava sguardi sgomenti, come di esseri che si affacciano per la prima volta al mondo, incerti su come muoversi, timorosi di reazioni ostili da parte egli altri. Lui stesso non sapeva cosa fare: era turbato nel profondo dalla scoperta di un se stesso che non conosceva. Da una parte avrebbe voluto avere il tempo di analizzare questo suo aspetto, per arrivare a comprenderlo fino in fondo. Qualcosa in lui, però, lo spingeva a fare un gesto, a togliersi al più presto da quella situazione di incertezza e di sgomento, a dimostrare che no, lui non era quel ragazzo immaturo e superficiale che l’ammaliante melodia di Paco voleva far credere.
Voleva agire, fare un’azione qualsiasi che spezzasse quell’incantesimo, ma riusciva solo a muovere gli occhi per osservare gli altri. C’era, nel gruppo degli universitari, un ragazzo che beveva meccanicamente piccoli sorsi di birra dal boccale che teneva in mano. Aveva lo sguardo perduto nel vuoto e sembrava sul punto di piangere. Era cambiato profondamente nel breve volgere di un’ora. Francesco l’aveva già notato, all’inizio della serata, allegro, solare, come di chi vive la propria vita in maniera schietta, trasparente. Qualcosa in lui si era mosso, portando alla luce ferite profonde. Forse aveva un problema di cuore, pensò Francesco. Poi però si chiese se anche questo non fosse un modo semplicistico di liquidare la faccenda: dare un’etichetta ad ogni cosa, senza accorgersi (o forse proprio per non volere accorgersi) di una realtà più profonda e complessa. Che ne sapeva lui da dove venisse l’infelicità di quel ragazzo? Era solo colpa di una donna, oppure, che ne so, di un rapporto difficile con i genitori? Quanto avrebbe dovuto scavare per poter dare una risposta a quella domanda? Ogni persona è un intrico di nodi difficili da sciogliere e, anche se si riesce, con fatica e dedizione, ad aprirne uno, subito ne appare un altro più profondo e difficile.
Paco intanto suggeriva la sua risposta. Mettendo insieme le sue note, una dopo l’altra, era arrivato ad un momento di grande lirismo. La musica indicava prepotentemente la via da seguire: se vuoi capire veramente chi hai di fronte non devi far altro che mostrarti a lui come veramente sei, senza falsità o sovrastrutture. Spogliati delle maschere, delle mode, delle doppiezze che ti accompagnano nella quotidianità. Accetta che l’altro possa gettare lo sguardo entro tuo animo, fino al punto più profondo e vedrai che tu potrai fare lo stesso con lui.
Francesco aveva la testa in fiamme. Questa nuova tentazione lo intimoriva, mentre cresceva in lui il desiderio impellente di fare qualcosa che lo sciogliesse da quell’incantesimo. Di colpo si accorse della presenza di Fimère. Guardò il volto della ragazza, fissandone a lungo gli occhi scuri. Ci trovò il suo stesso smarrimento, un senso di disagio, un pudore che rendeva impossibile il manifestarsi dei sentimenti profondi.
Paco attaccò le canzoni dell’amore, quello che arriva solo nel momento in cui riesci veramente a lasciarti andare, quando sei pronto ad accettare e a dare senza condizioni e senza sotterfugi.
Fu Fimère a prendergli la mano e a stringergliela forte. Francesco sentì il caldo contatto con il corpo di lei. Quel calore gli entrava dentro, come un antidoto allo sgomento che l’aveva sopraffatto. Sentiva di non poter rimanere un minuto di più dentro a quel locale, a farsi soggiogare dalla musica. Le tempie gli battevano furiosamente e cominciava a mancargli l’aria. Tirò con decisione la ragazza verso di se, guidandola verso l’uscita.
Quella notte fecero l’amore, due naufraghi che si credevano soli e che invece scoprivano di condividere la stessa sorte.
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“Mio padre e mia madre si sono battuti a lungo, nell’Università dove lavoravano, per far comprendere che i nostri costumi si possono evolvere senza tradirne le origini. Loro cercavano di far capire, prima di tutto ai loro colleghi ed ai politici, che la strada dell’integralismo è senza uscita, al pari di quella dell’occidentalizzazione forzata. Mio padre, quando era al colmo di una discussione tirava fuori la sua espressione preferita – lo chador è l’altra faccia della coca cola! – pensando di dire una parola definitiva sull’argomento. Purtroppo non è stato così. Nonostante avesse avuto una grande influenza e fosse discretamente famoso, si è ritrovato isolato e quando hanno cacciato mia madre dall’Università, impedendole di insegnare, ha deciso che era ora di andare via”.
Camminavano in mezzo agli altri chiacchierando fittamente. Francesco sentiva il suo profumo arrivargli ad ondate e pensò che avrebbe dovuto prendere una qualche decisione in merito a lei. Doveva ammettere che Fimère gli piaceva. Non era sicuro di esserne innamorato, ma si era ritrovato più volte a pensare a lei, negli ultimi tempi. Ma non quella sera. Dopo le parole di Paolo aveva per la testa solo la questione di Paco.
Appena dentro al locale andò dal musicista per accordarsi sul proseguimento dell’intervista. Paco de Luna gli rispose distrattamente, impegnato com’era negli ultimi preparativi.
Il posto era già affollato. In effetti c’era sempre molta gente, anche quando non si suonava. Era uno di quei rari locali che piacevano indistintamente a tutti i frequentatori della notte. Ci ritrovavi i fighetti della nuova borghesia, sregolati e prepotenti, come pure certi fossili del ’68, strani esseri che si rifacevano agli stessi modelli di quando erano giovani i loro genitori. Ci venivano gruppi di studenti in libera uscita e compagnie di impiegati delle aziendine di servizi che avevano invaso il centro storico.
Paco aveva cominciato lo spettacolo, accompagnato dalla chitarra e dai tre componenti della sua band. Aveva una voce suadente, appena arrochita dal troppo uso, che si adattava perfettamente al suo ruolo di sottofondo musicale.
Francesco, per abitudine, cominciò a scrutare la sala, per capire chi c’era. Lo faceva sempre, senza per questo estraniarsi dalla sua compagnia. Era come se intervallasse la conversazione con delle brevi pause in cui faceva le sue osservazioni.
Alla loro destra c’era un gruppo piuttosto numeroso, ad occhio e croce colleghi di lavoro che si ritrovavano per festeggiare qualcosa insieme. Spiccavano dagli altri una ragazza con i capelli a caschetto ed un tipo alto, atletico. Si vedeva chiaramente che erano loro a tenere banco. La donna parlava a raffica, senza rivolgersi in particolare a nessuno dei presenti. L’altro si intrometteva di tanto in tanto, ma con battute così efficaci da attirare immediatamente tutta l’attenzione.
Sulla sinistra, nel lato più distante dal palco, c’erano delle coppie, sedute ciascuna al suo tavolino. Alcuni conversavano guardandosi intorno, altri erano persi l’uno negli occhi dell’altro. Una coppia in particolare attirò la sua attenzione perché stava discutendo animatamente. Più che altro era lei che parlava con veemenza, pur cercando di mantenere basso il tono di voce, mentre lui la ascoltava provando ad esporre di tanto in tanto le sue ragioni.
Al centro della sala c’era un folto gruppo, piuttosto eterogeneo. Nella maggior parte erano probabilmente studenti universitari. C’erano alcune ragazze vestite “minimal” ed altre con capi firmati, ragazzi in jeans con altri che invece se la tiravano in stile grande Gatsby. Tutti parlavano contemporaneamente facendo una grande confusione.
Dietro a quella cacofonia di rumori risuonava la voce profonda di Paco. Le sue erano canzono lente, che parlavano di un tempo sospeso, di attimi eterni in grado di far sviluppare le emozioni lungo tutte le gradazioni possibili. Di gesti che si compiono secondo i ritmi segreti di un’antica saggezza. Cantavano l’attesa, come il momento più bello e struggente. Indicavano la necessità di fermarsi per poter cogliere il significato nascosto delle cose, l’armonia delle forme che ci circondano, la sconvolgente bellezza dei piccoli dettagli.
La maggior parte dei clienti non prestava alcuna attenzione ne’ a lui ne’ tantomeno alle sue canzoni. Però Francesco poteva cogliere qua e là qualche sguardo assorto, intento ad assorbire quella musica.
Nel gruppo aziendale la competizione fra la brunetta ed il tipo atletico era a massimo. I due avevano il busto in avanti, i loro gesti denotavano una forte tensione. La donna giocava tutto sulla velocità, sui giudizi tranciati di netto, sulla divisione fra quello che è nuovo, moderno, giusto e quello che era invece da buttare via. Francesco ci avrebbe giurato, era lei che normalmente dettava a tutti gli altri i canoni del loro pensiero. Si vedeva da come alcuni di loro la guardavano, lei era la fonte da cui attingevano quotidianamente il loro sapere. L’altro non la seguiva su quel terreno, in cui lei era maestra. Aspettava il momento giusto per poi buttare lì le sue provocazioni, quelle osservazioni caustiche capaci di scombinare il ragionamento della collega. Si vedeva che si divertiva a scompaginarne il filo del discorso, probabilmente con la prima cosa brillante che gli veniva in mente. Che poi argomentava con indubbia capacità.
Molti degli ascoltatori erano combattuti. Dalla donna sapevano di avere un continuo rifornimento di notizie e di giudizi salaci ma lui li faceva divertire di più. Ora la donna si prendeva delle pause più lunghe. Gli altri davano ormai segno di insofferenza quando lei provava a ripartire. Così lei si zittì completamente, iniziando di lì a poco a sbadigliare platealmente. Poi se ne andò, seguita da due o tre fedelissimi. Mentre passava la sentì commentare
“Che noia. Questo posto è diventato un cesso!”
L’atmosfera nel locale era impercettibilmente cambiata. L’elettricità dei primi momenti si era placata. Ora le persone sedevano più rilassate, i muscoli distesi, i gesti più misurati, le parole più calme. Qualcuno si gustava in silenzio la musica.
La coppia sulla sinistra aveva smesso di litigare. Era lui ora a parlare, lentamente, indicando a tratti verso il palco.
Un’altra coppia, forse un manager con una compagna clandestina, se ne era andata dopo che lui aveva guardato tre o quattro volte l’orologio. Nella compagnia al centro era terminata un’accesa discussione su come proseguire la serata. Una parte fremeva per cambiare ambiente mentre gli altri non vedevano motivo di spostarsi. Alla fine si erano divisi e quelli rimasti si erano messi più comodi nello spazio lasciato libero. Lì ognuno trovava poco a poco un modo nuovo di mettersi in mostra.
La conversazione, anche al suo tavolo, si era rianimata ma senza affanno. Era stato introdotto un nuovo argomento e tutti volevano parlare delle loro esperienze in quel campo. Chi stava parlando era delicatamente interrotto da un altro, che riteneva di avere un episodio più interessante da raccontare. Nessuno però si sentiva in competizione. Chi ascoltava, rideva e commentava, aspettando il momento opportuno per inserirsi.
Paco continuava a cullarli con i suoi ritmi lenti, ora con una rumba piena di struggimento e di promesse, ora con una milonga assassina. Le canzoni parlavano di anime solitarie, chiuse al mondo. Di amori finiti o mai cominciati per l’incapacità di uno dei due ad uscire dal guscio delle proprie difese. Delle occasioni perse, delle situazioni che si guastavano per un gesto non fatto, una parola non detta. Dei rimpianti e dell’aridità di cuori che non avevano saputo lasciasi andare, che non erano in grado di battere in sintonia con gli altri. Erano storie tristi, dove i protagonisti erano soli nel mare della folla. Invogliavano a guardarsi dentro, a fare bilanci per comprendere cosa siamo veramente, una volta gettata la maschera che ci protegge nella vita di tutti i giorni. A prendersi tutto il tempo necessario, per poter comprendere quello che di sbagliato c’è nel nostro quotidiano incalzare.
A poco a poco il locale si era svuotato. Non c’era più la calca di quando erano entrati. Molti avventori se ne erano andati alla chetichella. I gruppi prima così numerosi erano ora ridotti a poche persone. Si poteva così apprezzare quanto l’ambiente fosse spazioso. Chi era rimasto sedeva mollemente sui larghi divani. Le conversazioni continuavano lente, con lunghe pause, nelle quali sembrava che ognuno fosse assorto in chissà quali pensieri intimi. Si buttava lì una frase ogni tanto, come si butta un rametto secco nel fuoco, per non farlo spegnere del tutto.
Francesco si sorprese a pensare alle strane storie che si intrecciavano nella vita di TeleCittà, a Maria, a Giuliana ed anche a Lourdes e a Paco. E poi a se stesso. Gli sembrò così di scoprire un nuovo modo di vedere le cose. In effetti, fino a quel momento, era sostanzialmente contento di sé e della sua vita. Aveva l’amicizia di Paolo e conosceva un sacco di persone interessanti. Il lavoro alla tele era impegnativo, ma gli consentiva di fare cose sempre nuove. Non si annoiava di sicuro. Però le note arrochite di Paco avevano il potere di suggestionarlo, spingendolo a chiedersi se era felice. Se tutti quei contatti che aveva, potessero essere di vera comunione con quelli che chiamava i suoi amici. Poteva dire di conoscere veramente a fondo qualcuno, in quella stanza? Sì, anche lo stesso Paolo, con cui divideva i suoi pensieri. L’aveva visto, prima, con E scambiarsi segnali in un codice diverso dal suo. Qualcosa che quindi gli sfuggiva, a cui non era ammesso. Era vera amicizia, quella? Forse c’era in lui qualcosa che non andava, qualcosa di molto nascosto, che finora non aveva compreso. Forse non sapeva vedere gli altri. Non li osservava nella maniera giusta e non li stava a sentire. Li guardava senza vederli realmente. Era troppo impegnato ad osservare se stesso, a studiare le sue proprie reazioni per accorgersi di quelle degli altri.
Allora si guardò in giro, cercando di proposito di carpire lo stato d’animo di chi gli stava intorno. Colse molti sguardi assorti, come intimoriti di una scoperta simile alla sua. Le conversazioni erano veramente ridotte al minimo, come se tutti provassero, improvvisamente, un senso di vergogna nel manifestarsi agli altri.
Proprio in quegli attimi la musica di Paco cambiò ancora. Con variazioni impercettibili di suoni, attaccò storie che parlavano di persone semplici, della bellezza che si può scoprire in chi ci passa accanto, dell’importanza capitale di saper cogliere la ricchezza di sentimenti e gli insegnamenti che ciascuno può darci. La tristezza delle melodie precedenti lasciò il passo a note cariche di umanità, dove ogni storia diventava importante, preziosa ed unica. Cantava l’irripetibile bellezza di ogni vita, la gioia di incontri casuali, della scoperta di nuove ed interessanti prospettive che solo l’altro ci può dare.
La voce profonda del cantante si fondeva perfettamente con le note intense della chitarra. Lo strumento sembrava ora possedere una propria vita. Le sue corde erano tese allo spasimo per arrivare a dare il giusto colore ad ogni suono. Il legno perfetto e levigato della cassa rimandava le vibrazioni arricchite di nuove e variopinte tonalità. L’insieme che ne scaturiva era di una forza quasi magica. Le parole raccontavano semplici azioni quotidiane, con le piccole miserie capaci di avvelenare l’esistenza dei protagonisti e con le gioie altrettanto piccole, necessarie a renderla almeno sopportabile. Eppure da quei frammenti di vita emanava un forte senso di speranza, la gioia di esseri in sintonia, che trovano nella comunanza del sentire una forte ragione di vita.
Francesco faceva vagare il suo sguardo da uno all’altro degli avventori rimasti nella sala. Incrociava sguardi sgomenti, come di esseri che si affacciano per la prima volta al mondo, incerti su come muoversi, timorosi di reazioni ostili da parte egli altri. Lui stesso non sapeva cosa fare: era turbato nel profondo dalla scoperta di un se stesso che non conosceva. Da una parte avrebbe voluto avere il tempo di analizzare questo suo aspetto, per arrivare a comprenderlo fino in fondo. Qualcosa in lui, però, lo spingeva a fare un gesto, a togliersi al più presto da quella situazione di incertezza e di sgomento, a dimostrare che no, lui non era quel ragazzo immaturo e superficiale che l’ammaliante melodia di Paco voleva far credere.
Voleva agire, fare un’azione qualsiasi che spezzasse quell’incantesimo, ma riusciva solo a muovere gli occhi per osservare gli altri. C’era, nel gruppo degli universitari, un ragazzo che beveva meccanicamente piccoli sorsi di birra dal boccale che teneva in mano. Aveva lo sguardo perduto nel vuoto e sembrava sul punto di piangere. Era cambiato profondamente nel breve volgere di un’ora. Francesco l’aveva già notato, all’inizio della serata, allegro, solare, come di chi vive la propria vita in maniera schietta, trasparente. Qualcosa in lui si era mosso, portando alla luce ferite profonde. Forse aveva un problema di cuore, pensò Francesco. Poi però si chiese se anche questo non fosse un modo semplicistico di liquidare la faccenda: dare un’etichetta ad ogni cosa, senza accorgersi (o forse proprio per non volere accorgersi) di una realtà più profonda e complessa. Che ne sapeva lui da dove venisse l’infelicità di quel ragazzo? Era solo colpa di una donna, oppure, che ne so, di un rapporto difficile con i genitori? Quanto avrebbe dovuto scavare per poter dare una risposta a quella domanda? Ogni persona è un intrico di nodi difficili da sciogliere e, anche se si riesce, con fatica e dedizione, ad aprirne uno, subito ne appare un altro più profondo e difficile.
Paco intanto suggeriva la sua risposta. Mettendo insieme le sue note, una dopo l’altra, era arrivato ad un momento di grande lirismo. La musica indicava prepotentemente la via da seguire: se vuoi capire veramente chi hai di fronte non devi far altro che mostrarti a lui come veramente sei, senza falsità o sovrastrutture. Spogliati delle maschere, delle mode, delle doppiezze che ti accompagnano nella quotidianità. Accetta che l’altro possa gettare lo sguardo entro tuo animo, fino al punto più profondo e vedrai che tu potrai fare lo stesso con lui.
Francesco aveva la testa in fiamme. Questa nuova tentazione lo intimoriva, mentre cresceva in lui il desiderio impellente di fare qualcosa che lo sciogliesse da quell’incantesimo. Di colpo si accorse della presenza di Fimère. Guardò il volto della ragazza, fissandone a lungo gli occhi scuri. Ci trovò il suo stesso smarrimento, un senso di disagio, un pudore che rendeva impossibile il manifestarsi dei sentimenti profondi.
Paco attaccò le canzoni dell’amore, quello che arriva solo nel momento in cui riesci veramente a lasciarti andare, quando sei pronto ad accettare e a dare senza condizioni e senza sotterfugi.
Fu Fimère a prendergli la mano e a stringergliela forte. Francesco sentì il caldo contatto con il corpo di lei. Quel calore gli entrava dentro, come un antidoto allo sgomento che l’aveva sopraffatto. Sentiva di non poter rimanere un minuto di più dentro a quel locale, a farsi soggiogare dalla musica. Le tempie gli battevano furiosamente e cominciava a mancargli l’aria. Tirò con decisione la ragazza verso di se, guidandola verso l’uscita.
Quella notte fecero l’amore, due naufraghi che si credevano soli e che invece scoprivano di condividere la stessa sorte.
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