Il posto della mente è una piccola oasi letteraria dove possiamo andare quando abbiamo bisogno di qualcosa di diverso. Di leggere, o scrivere storie. Storie inventate, come quelle che io, da principiante, sottopongo al vostro giudizio, oppure storie vere, piccoli "frammenti di vita" che scivolerebbero immediatamente nell'oblio se qualcuno di noi non li raccogliesse.

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giovedì 22 aprile 2010

Mastectomia preventiva [gianbarly]

Lo sguardo fisso, nervoso, la voce che si fa largo a fatica nella gola stretta dal morso dell’angoscia.
“Allora, dottore, me lo dica… ho il cancro?”


sabato 17 aprile 2010

La gloria di domani - racconto [gianbarly]

Le mani appoggiano con cura il pallone sull’erba, cercando il punto migliore, quello che non tradisce. Piano, senza fretta, costruiscono un piccolo nido nel terreno, che trattenga solo un poco la palla. Il gesso bianco del dischetto sporca appena la sfera lucida.



Paco de Luna - Primo quadro [gianbarly] TeleCittà 4


Gli avvenimenti si mescolavano nella mia mente. Alla fine avevo fatto quella benedetta intervista. Paolo me l’aveva montata e, tirando un gran sospiro, avevo consegnato la cassetta a Maria. Il mercoledì era passato senza che succedesse nulla di particolare. Avevo sperato in un ringraziamento, una lode o almeno un commento non negativo. Mi dovetti accontentare di non avere critiche.Poi, quando già la questione si stava affievolendo dentro di me, ecco quel biglietto. Sentivo un bisogno disperato di stare un po’ solo. Quella sera uscii senza cercare il mio amico Paolo. Girai a lungo in macchina, nelle strade lungo il fiume, le più piene di vita. Guidavo senza una meta, per cercare di allentare la tensione che mi sentivo dentro e fare un po’ di ordine. Ma più mi sforzavo di analizzare la questione, più i pensieri mi turbinavano a caso nel cervello. Ceravo di risolvermi ad affrontare il problema e invece mi ritrovavo a pensare ad altro. Man mano che passavo davanti ai locali ricostruivo dentro di me la loro mappa. Paolo mi aveva insegnato, sera dopo sera, a riconoscerli, a capire le logiche sotterranee che li rendevano alla moda. Ad individuare quelli giusti per le diverse occasioni, per andarci con gli amici o per portarci una ragazza, quelli da evitare, quelli troppo su o troppo giù. Quelli per gay, o troppo in odore di malavita. Quelli in cui potevi tirare mattino o dove andare a cercare un brivido più intenso. Dove poterti rifugiare per tirarti via da una storia che ti faceva soffrire e dove invece cercarne una nuova.
La città ti metteva a disposizione la gamma completa delle possibilità, bastava saperle riconoscere ed offrirsi a loro senza remore. In questo Paolo era una guida insostituibile. Ti raccontava con semplicità la storia di ogni locale. Conosceva tutti e trattava ciascuno secondo un suo preciso canone.
Mentre ragionavo fra me e me di queste cose mi allontanavo dal centro, come alla ricerca di posti più defilati. Infine mi risolsi ad uscire dalla città. Guidai per un’ora abbondante per vialoni semideserti, lasciandomi portare dai pensieri che man mano mi si affacciavano alla mente. La cosa che mi aveva tormentato era ormai sepolta in qualche recesso del cervello e non facevo niente per risvegliarla.
Ad un certo punto mi venne in mente che, non lontano da dove mi trovavo, c’era un posto che avevo frequentato quando andavo a scuola. Era un bowling, dove andavamo spesso a dispetto della lontananza perché a quel tempo era gestito dal padre di un nostro compagno e potevamo fare qualche partita gratis. Mi venne la curiosità di rivederlo e, sotto sotto, forse la speranza di ritrovare qualche volto sbiadito nella memoria.
Parcheggiai la macchina ed entrai con un senso di lieve euforia, come quando la situazione prende una piega insperata.
Il locale era parecchio cambiato. Del resto ne avevo avuto notizie fresche, ovviamente da Paolo. Ne avevamo parlato per un suo curioso aspetto. Negli ultimi anni, dopo il cambio di gestione, aveva sviluppato, per così dire, una duplice personalità. Quasi un dottor Jekill e mister Hyde del divertimento. Aiutato, in questo, dalla conformazione degli ambienti. Da una parte, dove c’era un ampio salone con grandi vetrate, era il bowling di sempre, per lo più frequentato da compagnie di ragazzi e ragazzini numerose e vocianti. C’era poi un’ala più piccola e raccolta che partiva dal lato destro in fondo alle piste, dove era stato ricavato il posto per una decina di tavolini. Il bancone del bar era in mezzo, a separare i due ambienti. L’atmosfera intima ed il fatto di essere sufficientemente fuori mano vi aveva fatto affluire prima delle coppie in cerca di luoghi defilati, poi sempre di più quelli che andavano in cerca di incontri fugaci, senza troppe complicazioni. Era diventato il posto più in voga per chi, donne e uomini, era in cerca di avventure senza futuro. I proprietari del locale avevano incoraggiato questa squallida tendenza separando sempre di più le due parti. Ora il locale era una specie di Giano bifronte. Uno poteva entrare sul davanti, fare le sue partite, divertirsi tutta la sera senza minimamente accorgersi di quell’altro mondo che pulsava a pochi passi da lui.

Mi guardai intorno e – fortuna! – vidi un vecchio amico. Ci salutammo calorosamente e lui mi invitò ad unirmi alla sua compagnia. Giocavamo e ricordavamo i vecchi tempi. Aveva amici simpatici e finii per trascorrere una piacevole serata.
Quando loro uscirono andai al bancone del bar per farmi una bibita. Ero davvero sereno e volevo godermi quello stato ancora un po’. Mi appollaiai su uno sgabello cominciando a sorseggiare la mia bevanda. Il bancone era fatto a ferro di cavallo, in modo che il barista potesse agevolmente servire sia la parte del bowling sia i frequentatori dell’altro ambiente. Gli scaffali con le bottiglie dei liquori mi impedivano di vedere cosa succedeva dall’altra parte, tranne che per l’ultima parte del bancone. Io, in quel momento, non avevo la minima curiosità di quelle storie. Appartenevano ad un mondo che non riuscivo minimamente a capire, che rifiutavo e che mi dava una grande tristezza. E non avrei dato nessun importanza a quell’aspetto del locale se il mio sguardo non avesse colto, proprio nella porzione di bancone che potevo vedere, un volto familiare.
Proprio lì, in mezzo a due uomini, c’era Maria.
La prima cosa che mi colpì fu la sua espressione. Era trasformata. In ufficio aveva sempre un’aria livida, sfinita, che tradiva un eterno rancore. Di fatto non avevo mai pensato a lei come ad un essere umano. La vedevo ora per la prima volta, lo sguardo acceso, i movimenti a scatto, un po’ accelerati, la risata forte. Era una donna non più giovanissima, con le sue storie e chissà quali aspirazioni, sospesa in quell’età in bilico fra ciò che è stato e quello che non sarà più. Chiacchierava fittamente con i due uomini, con ampi gesti delle mani. Ogni tanto buttava la testa all’indietro, prorompendo in una sonora risata. I due le stavano addosso come cani in calore. Ad un certo punto quello più anziano le mise una mano sul seno. Lei fece un debole segno di resistenza, ma poi lo lasciò fare. Continuò a parlare come se niente fosse. Dopo un po’ avvicinò la bocca all’orecchio dell’altro uomo per dirgli qualcosa. La sua mano sparì lentamente sotto il bancone mentre lo fissava con aria divertita. L’espressione dell’uomo cambiò di colpo. Stettero così per qualche istante poi cominciarono a ridere guardandosi negli occhi. Maria allora si girò verso quello che le aveva palpato il seno e di nuovo affondò la mano verso il basso, ripetendo lo stesso copione. L’uomo era a disagio e si dimenava sullo sgabello. Non guardava verso Maria, ma dava fugaci occhiate intorno. Lei, divertita dalla sua reazione, prolungava la sua azione, accentuano apposta i movimenti della mano e sussurrando continuamente all’orecchio dell’uomo. Poi si rizzò di colpo più che poteva, in modo da sovrastare i due e alzò le braccia davanti al viso, roteando le mani e gli occhi, come a mettere in fila una serie di elementi. Fece alcune considerazioni ad alta voce, aumentando l’imbarazzo del secondo uomo, anche se nessuno poteva sentirli. Ammiccò più volte, ridendo a mezza voce. Alla fine puntò gli indici paralleli verso quello alla sua destra. Lui annuì soddisfatto. Lei diede un buffetto all’altro, che alzò le spalle. I tre si alzarono allontanandosi da me. Maria uscì dal locale tirandosi dietro la sua preda.
Poco dopo uscii anch’io, con la testa in fiamme. In bocca avevo il sapore metallico della birra a pressione. Ciò che avevo visto mi lavorava dentro, facendomi star male. Non riuscivo proprio a vedere la cosa con distacco. Eppure non avevo mai provato per Maria alcun interesse – non dico a livello affettivo – ma neppure con cose come simpatia o antipatia. L’avevo semplicemente catalogata fra le piccole noie che ti possono capitare. Non mi consideravo neppure un bacchettone; ero, anzi, incline ad accettare tutte le forme di espressione delle tendenze sessuali, senza alcuna preclusione. No, non era quello il punto. In realtà, non era tanto il disgusto per quella scena, quanto la mia totale incapacità di afferrarne il senso. Dio mio, Maria non aveva bisogno di quello! Non poteva averne bisogno! Mi tormentai per buona parte della notte, incapace di archiviare la cosa fra le evenienze più o meno strane della vita. Finii per addormentarmi sfinito.

Paco de Luna - Primo quadro [gianbarly]TeleCittà 3


Ma, in realtà, anche tutta la faccenda dell'intervista mi è sempre apparsa assai confusa.
Le interviste, lì da noi, le aveva sempre fatte Xavier, un free-lance che collaborava da tempo con TeleCittà. Aveva un suo spazio fisso, il mercoledì in seconda serata. Era uno dei pochi programmi prodotti direttamente da noi che avesse un buon ascolto. Quindi Xavier era ben visto dalla direzione e questo suo appuntamento molto importante per la tele.
Si diceva che fosse il pupillo di Annamaria, tanto che, ad un certo punto, si sparse la voce che fossero amanti. Per qualche settimana non si parlò d’altro. L’Antonia, con la sua falcata, si era presa la briga di andare in giro per tutti i box a spargere la novella.
Maria da lontano la osservava attentamente, come a dirigerne le mosse. Ma quando fu poi interpellata disse:
“No! Non ci posso credere! Annamaria non è il tipo.”
E aggiunse subito, sottolineando le parole:
“ Anche se… beh, poi in fondo che male ci sarebbe? Purché tengano separate le loro manfrine dalle questioni di lavoro…”
Annamaria non ne parlò mai. Sembrava ignorare completamente quello che si diceva. Evitò accuratamente l’argomento, ma, in quei giorni, si diede da fare ad organizzare una cena di tutto lo staff.
“Giusto una cosina per stare un po’ tutti insieme, senza lo stress del lavoro!”
E si presentò con il marito cui restò appiccicata tutta la serata. Maria buttò lì qualche commento, senza però avere molto seguito.
Le chiacchiere smisero di colpo.

Comunque Xavier era assolutamente intoccabile e gli si perdonavano cose che per altri non sarebbero passate senza conseguenze. Come una certa tendenza a fare di testa sua, senza rispettare minimamente le esigenze della tele. Arrivava ad un’ora imprecisata del giorno, aereo come una folata di vento. Era come se, improvvisamente, si fossero spalancate tutte le finestre e il fuori si precipitasse dentro rimescolando gli odori. Faceva uno dei suoi larghi sorrisi, che si rifletteva nello scuro dei suoi occhi – forse un retaggio dei suoi avi mediorientali – e in quattro e quattr’otto se n’era già andato. La sua meta era la stanza di Paolo, cui consegnava il materiale, accompagnato da qualche frase smozzicata di istruzioni. E Paolo immancabilmente gli faceva un ottimo lavoro. La cosa funzionava e… pazienza se spesso arrivava all’ultimo tuffo, facendo scorrere un brivido freddo lungo la schiena di Maria, che era responsabile del palinsesto.
Ogni tanto spariva dalla circolazione. Tre, quattro, anche cinque settimane di seguito, senza che nessuno sapesse dov’era. Allora faceva in anticipo le sue interviste e ce le portava tutte assieme, prima di partire. In questo modo il programma era salvo e Annamaria poteva continuare a sostenerlo, ignorando le frecciate velenose di Maria.

Xavier mi aveva chiamato, una mattina, per chiedermi di passare da lui a prendere degli RVM. Li portai in studio, e mi stavo dirigendo verso la stanza di Paolo, quando incappai nelle Tre Grazie. Al solito, erano ferme in mezzo al corridoio lungo, a parlare tra di loro. L’Antonia era infervorata a spiegare chissà cosa, con Maria che cercava vanamente di arginarla. Annamaria le guardava con un certo distacco e, come mi vide passare, mi chiese secca:
“Dove vai, Franchino?”
“Porto gli RVM di Xavier a Paolo” dichiarai, sentendomi indagato. Poi aggiunsi:
“Sono tre, perché lui…, Xavier intendo, sta fuori per un po’”
“Sì, certo, me lo ha detto. Sta via per un mese”
Maria saltò subito su:
“Come, un mese? Ma resta scoperta una settimana!”
Annamaria, scrollò la testa con tranquillità:
“Vorrà dire che per una volta qualcun altro farà il suo programma. Che problema c’è?”
Maria sembrò ricevere uno schiaffo in pieno viso. Boccheggiò per un attimo, poi rianimandosi, disse tutto di un fiato:
“Certo che sì! Potrebbe farlo proprio il nostro Franchino!”

Questa volta lo schiaffo l’avevo preso io. Restai inebetito senza sapere cosa fare. Aprii e chiusi due o tre volte la bocca senza che ne uscisse alcun suono.
Ma nessuno se ne accorse. Le tre donne si guardavano a vicenda, aspettando la mossa successiva. Annamaria soppesò appena la proposta, poi disse:
“Ok. Mi sembra una cosa sensata. Sì. Lo farà Franchino” Si girò verso di me e disse, con un leggero tono canzonatorio:
“Così ci farai vedere quello di cui sei capace, vero?”.
Annuii, ma dentro di me avevo una grande confusione.

Quella sera Paolo si incaricò di diradarmela almeno un poco. Uscivo spesso con lui, ci stavo bene insieme. Andavamo a scoprire locali sempre nuovi, e lui mi introduceva ai misteri di questo o quell’altro ambiente. Sapeva una infinità di cose, molte più di me, pur essendo solo di poco più grande. Ed io lo stavo a sentire, grato di avere una fonte preziosa da cui imparare.
“Cerca di seguirmi” disse, guardandomi fisso negli occhi, come quando voleva farmi assimilare un concetto.
“Xavier è il pupillo di Annamaria”
“Questo lo so!” protestai.
“Sì, ma lei lo deve continuamente difendere, perché lì dentro c’è un sacco di gente a cui quel programma fa gola. Maria non perde occasione per cercare di mettere Xavier in cattiva luce!”
“Dici che è stata lei a mettere in giro quelle voci?”
“Tu che ne dici?” Poi, senza aspettare la mia risposta:
“Maria sta aspettando da tempo l’occasione per far fuori Xavier e mettere al suo posto Luciano… Capito?”
“Luciano, quello della sportiva…?”
“Proprio lui. Quei due hanno un patto. Forse hanno avuto anche una storia. In ogni caso fanno fronte comune in tutte le situazioni.”
Mi diede qualche secondo per afferrare la situazione e poi:
“E tu oggi le hai portato quell’occasione… Solo che Luciano si è messo momentaneamente fuori gioco da solo, pensando bene di rompersi una gamba proprio in questi giorni!”
“E… ma io cosa c’entro?”
“Franco! Benedetto testone! Quando Annamaria ha proposto di dare il programma – solo per una volta! – a qualcun altro, Maria non solo non ne ha potuto approfittare, ma ha anche subodorato immediatamente il pericolo: se lasciava ad Annamaria la possibilità di indicare qualcuno per sostituire Xavier, - qualcuno dei soliti nomi, voglio dire – Luciano sarebbe stato bruciato per sempre!”
“Ho capito” sospirai “ha fatto il mio nome perché non conto niente lì dentro!”
Paolo mi diede un buffetto sincero “E Annamaria ha accettato perché, se la cosa va male, la colpa sarà di Maria, non sua. Ma tu vedila in un altro modo: in fondo hai la tua buona occasione!”

Passai la settimana seguente in uno stato di tranche. L’incarico mi piaceva, e volevo fare bella figura. Ma ero intimorito dall’ombra di Xavier e da tutte quelle trame che mi aveva svelato Paolo. E non sapevo risolvermi a lavorare al progetto.

Poi, un giorno che ero andato all’aeroporto a prendere un’ospite che arrivava da fuori, incrociai Xavier che si dirigeva al settore Partenze.
Lo chiamai.
“Ciao, Franchino, che fai qui?” Poi di seguito “Sai, sono in partenza per il Centramerica! Stasera sono a Managua!”
Gli indicai il bar. Si girò, approvando:
“Un caffè? Ma sì, ho ancora qualche minuto!”
Ci sedemmo. Mentre ordinavo i caffè lui sistemò il suo numeroso bagaglio intorno al nostro tavolino. Lo osservavo di sbieco, ringraziando il cielo per quell’occasione insperata.
“Sai Franchino, è la terza volta che vado laggiù! Ah, la cosa più bella del mondo!” I suoi occhi brillavano in maniera particolare “Ho un contratto. Faccio ricognizioni aeree”
Vide la mia perplessità.
“No, no. Niente interviste, laggiù. Solo io, il pilota e la giungla. Voliamo per ore sopra gli alberi, e spesso senza scambiarci che qualche cenno. Una meraviglia, ti dico!”
Bevve un po’ di caffè.
“C’è una compagnia, una grossa compagnia di legnami che mi paga”
Mi guardò e io mi sentivo come un bambino a cui un adulto rivela una parte di quel mondo che solo in seguito sarebbe stato anche suo.
“Io devo fare delle riprese. Dall’alto, è ovvio. Loro devono sapere quanti alberi ci sono in una determinata zona, di che tipo, eccetera… Insomma, un sacco di informazioni, per poi poter fare i loro conti. E io gli filmo tutto. Non ti credere, non è mica facile! E no,caro mio. Bisogna avere occhio! Volare bassi e stare attenti alla luce, alle vibrazioni. Eh! Un sacco di cose!”
Si fermò un attimo, sprofondandosi completamente nella poltroncina.
Deglutii, poi feci un respiro profondo.
“Senti…”
Lui proruppe una risata, mentre con la mano faceva il verso dell’aereo, mimando picchiate, risalite e cabrate.
Andò avanti per qualche secondo, poi mi guardò.
“Sai, io devo riprendere anche le aree dove hanno già tagliato gli alberi. Dovresti vedere con i tuoi occhi. Distese e distese di alberi, senza poter vedere un centimetro di terra… e poi di colpo, il nulla! Grandi buchi quadrati, chilometri di terreno senza più nessuna forma di vita. Loro, quelli della compagnia, mi hanno incaricato soprattutto per questo. Devono documentare allo Stato quello che fanno. Quanti alberi abbattono, dove, com’è la situazione dopo. Hanno dei vincoli precisi, sai. Possono abbattere solo a determinate condizioni. E poi devono immediatamente reimpiantare lo stesso numero di alberi. Gli altri, quelli del governo, intendo, non ci vanno mica laggiù, non ci pensano nemmeno. Troppo scomodo!. Così è la compagnia a dover documentare che tutto sia fatto secondo gli accordi”
Mi guardò con aria grave. Poi scoppiò nuovamente a ridere:
“E io devo fare in modo che il governo abbia le informazioni nel modo giusto! Giusto per loro, ovvio!” Finì il suo caffè.
“Se la guardi bene, è divertente! Situazione fantastica! Va trovato il modo di far apparire piccole le aree tagliate e grandi quelle ancora vergini… Bisogna fare delle riprese radenti, con il sole dal lato giusto. Allora io dico al pilota di andare più giù, sempre più vicino a terra. Lui bestemmia, maledicendo il giorno che mi ha incontrato, ma poi fa esattamente quello che gli chiedo. Uno spasso!”
“Ma..” provai a interloquire.
Lui continuò, lieve come sempre:
“La volta scorsa dovevo fare in modo che gli alberi ripiantati sembrassero veramente tanti, e fitti. Quelli dl governo rompevano le palle per via di certe voci messe in giro dai soliti mestatori. Abbiamo provato più e più volte, ma il risultato era scadente. Quelli della compagnia si sono dimostrati pazienti e mi incoraggiavano a fare meglio. Allora ho chiesto al pilota di volare ancora più in basso, restando sempre al margine della zona tagliata. Ho impostato la camera nel modo giusto, ed è venuta una ripresa con i fiocchi! - Stai giù – gli dicevo – stai giù! Ancora un po’! -. Alla fine ha ripreso quota così vicino agli alberi che abbiamo toccato delle fronde con la punta di un’ala!”
Poco dopo ci siamo salutati, senza che io avessi trovato il coraggio di dirgli che avevano affidato a me l’incarico di sostituirlo.

Paco de Luna - Primo quadro [gianbarly] TeleCittà 2


Pochi giorni dopo l'intervista a Paco de Luna, trovai un biglietto sulla mia scrivania.
A dire il vero non è che la scrivania fosse proprio mia.

giovedì 15 aprile 2010

Paco de Luna - Primo quadro [gianbarly] TeleCittà 1


TeleCittà

L'Antonia avanzava con la sua falcata caratteristica lungo l'ampio corridoio centrale. Aveva un corpo snello, slanciato, che avrebbe potuto farla sembrare bella se non fosse stato per la faccia, caratterizzata da denti leggermente irregolari e decisamente sporgenti, che le davano una imbarazzante sembianza equina. Portava una massa disordinata di capelli crespi, perennemente in movimento. Da come li esibiva si capiva che lei ne era molto fiera. A dispetto della realtà, si considerava una bella donna.