Il potere nelle mani (da web) |
Arrivo davanti alla porta spinto da una sensazione di euforia. Finalmente. Ora mi sembra di aver capito, di sapere chiaramente quel che debbo fare. E’ una cosa che mi capita di rado, solo quelle poche volte che sento di aver afferrato la verità. Non ho più dubbi, sono anzi preso da una frenesia, dall’urgenza di fare in fretta, prima che tanta chiarezza si dissolva.
In questo momento la mia mente è come l’acqua del mare dove andavo da bambino che, in certe giornate calme, rarissime, diventava così trasparente da poter vedere distintamente il fondo, anche a dieci metri e più di profondità. Però, bastava poi un nulla, un motoscafo che passava, una bava di vento o una corrente che tutto subito si annebbiava e il fondale tornava ad essere un lontano miraggio.
In questo momento la mia mente è come l’acqua del mare dove andavo da bambino che, in certe giornate calme, rarissime, diventava così trasparente da poter vedere distintamente il fondo, anche a dieci metri e più di profondità. Però, bastava poi un nulla, un motoscafo che passava, una bava di vento o una corrente che tutto subito si annebbiava e il fondale tornava ad essere un lontano miraggio.
Ecco, oggi, in questo momento sono come quell’acqua cristallina. E sono deciso ad andare fino in fondo. Squadro la porta del negozio del Libanese, pronto ad afferrare la maniglia per aprirla.
Lo so che quello sarà un gesto senza ritorno, ma so anche di volerlo fare. Non voglio più tornare indietro, non voglio più questa nebbia fitta che mi avvolge il cervello, che mi impedisce di capire e di fare. Non voglio più sentirmi le gambe molli e le braccia pesanti come piombo, impotente, incapace di una qualsiasi decisione.
Decisione. Quante volte l’ho sentita, questa parola. In casa mia sempre, ogni cosa andava presa con decisione. Nei discorsi (e se ne sono fatti tanti di discorsi, in quella casa!) occorreva sempre prendere una decisione. Ed ogni volta era una decisione importante, vitale, necessaria ed urgente. Veniva gente, tanta gente, persone importanti a trovare il nonno e poi il babbo, parlavano gravemente e concludevano invariabilmente dicendo che andava presa una decisione.
Il più deciso di tutti era indubbiamente lui, il Generale. Lo chiamavamo così, non nonno o babbo. Anche la nonna, sua moglie, parlava di lui dicendo “Il Generale ha detto … il Generale vuole che si faccia …” Sempre e solo il Generale, con la G maiuscola. Del resto era veramente un personaggio importante, il Comandante in Capo dell’Arma.
Il Generale decideva, convocava, convinceva. Quando lui era in casa, le mura erano scosse da un’attività frenetica. Si preparavano pranzi, si ricevevano ospiti, si imbastivano riunioni informali. All’epoca io ero poco più di un bambino ed osservavo affascinato tutto quel via vai, ascoltando di nascosto quei discorsi che per me erano privi di senso.
Mi ero trovato un posto perfetto, all’insaputa di tutti. Fra la dispensa e lo studio c’era una piccola porticina di legno, di quelle che a volte si trovano nelle case più vecchie, dipinte come la parete in modo da occultarle alla vista. Stavo lì, con l’occhio incollato alla fessura, senza perdermi una sola parola di quei discorsi importanti. In realtà non ci capivo nulla, per me erano frasi senza alcun senso, ma mi piaceva il tono con cui erano pronunciate. Certe espressioni mi divertivano da morire. C’è stato un periodo in cui parlavano sempre del Birillo.
“Bisogna far cadere il Birillo”
“Il Birillo si è messo di nuovo di traverso”
“Tu che lo conosci bene, cosa farà il Birillo?”
“E’ l’ora di tirarlo giù, il Birillo”
Dietro la porticina io mi contorcevo dalle risate, rischiando di farmi scoprire. Mi figuravo un tipo lungo lungo, vestito di colori sgargianti che quei signori spingevano da tutte le parti per farlo ruzzolare a terra.
Invece del Birillo fu il Generale a cadere, con il suo elicottero, su certe montagne lontano da casa. Per me fu il momento di crescere. Lasciai per sempre le fantasie dell’infanzia, iniziando il lungo percorso verso una maggiore consapevolezza. Al dolore per la morte del nonno si sovrappose il clima di preoccupazione che c’era in casa. Mio padre si dava un gran daffare con tutti quelli che venivano a trovarci. C’erano i soliti visi ormai noti ma anche facce nuove, che non avevo mai visto. Una parola ritornava continuamente nei loro discorsi: complotto. E io cominciavo a rendermi vagamente conto di quello che poteva significare.
Il Libanese me lo sono trovato da solo. Ci sono arrivato senza alcun aiuto. E ne sono fiero. Soprattutto di non aver dovuto chiedere alcunché al babbo.
Mio padre è molto diverso dal Generale. Lui è sempre allegro, disinvolto. Ha modi leggeri e sembra risolvere ogni questione con una risata. Da grandi pacche sulle spalle a tutti e la sua frase preferita è “Dai, che tutto si sistema!”. Da quando ha preso in mano gli affari della famiglia c’è un clima più sereno, quasi che la vita fosse una continua festa, appena punteggiata da piccole contrarietà che però si possono affrontare senza perdere il buonumore. Lui non ha seguito il Generale nella carriera militare. Ha studiato da ingegnere ed ha messo in piedi una florida attività di import ed export. Ha mantenuto tutti i contatti ereditati dal padre, cui però ha immediatamente aggiunto una sfilza infinita di personaggi dei più differenti ambienti.
Gli amici del nonno erano di due tipi: i militari ed i politici. I primi li riconoscevi anche quando erano in borghese per i loro modi rigidi, i secondi sempre in giacca e cravatta.
Ora in casa nostra si vedono persone diverse: l’ingegnere iraniano, con tutta la sua famiglia, che ci ha pregato mille volte di andare a trovarlo nella sua Isfahan. Il tunisino che vive negli Emirati, trafficando in armi. E poi scienziati ed esperti informatici, oppure diplomatici indiani. A volte viene anche un signore cinese, molto compito e riservato.
Il babbo li riceve tutti con i suoi modi frizzanti, chiacchierando con ciascuno nella sua lingua madre, ascolta attentamente quello che gli dicono e discute con loro ogni dettaglio della situazione.
Con lui non ho mai avuto bisogno di orecchiare di nascosto. Mi ha sempre parlato di ogni persona che incontrava, spiegandomi nei dettagli come lui, solo lui, era in grado di fargli fare quello che voleva. Tutti burattini, da far muovere tirandone le corde che li legano. A volte gli capita di vedere sul giornale la foto di qualcuno che conosce. Invariabilmente prorompe in una risata, dicendo “Ma guardalo, come si agita! Sembra lui il padrone del mondo!”, mi da di gomito e poi “Ma noi lo sappiamo chi lo comanda, vero?”
“Ricordati Piero, per ciascuno di noi ci sono solo due possibilità: o sei Dentro o sei Fuori. Sta a te decidere”. Tutto il suo insegnamento stava in quella frase. Ma io, come discepolo, non sono mai stato all’altezza. Pur impegnandomi non riuscivo a seguirlo nei suoi complicati giochi di rimandi con cui cercava di spiegarmi le ragioni dei comportamenti di quelle persone. Le sue chiare parole si trasformavano, nella mia testa, in una densa melassa opaca.
Del Libanese non mi ha mai parlato. Ho dovuto scoprirne da solo l’esistenza. Il legame oscuro che li unisce.
C’è un’altra persona di cui non mi ha parlato. Uno che venne di mattina presto, non l’avevo mai visto, con la giacca scura sulla camicia bianca ma con il nodo della cravatta sfatto. Era molto agitato, parlava forte incalzando mio padre a fare qualcosa. Ad un certo punto è arrivato ad inginocchiarsi davanti a lui, supplicandolo fra le lacrime. Mio padre l’ha fatto alzare e con il suo solito tono leggero l’ha rassicurato.
Nel pomeriggio l’hanno trovato in mezzo ad un campo, fuori città, senza più una parte di cervello, portato via dal proiettile che l’ha ucciso. Sul giornale c’era una intera pagina dedicata a lui, ma in casa non se ne è parlato proprio.
L’aver trovato da solo il Libanese mi da la certezza di poter essere Dentro. Oggi posso finalmente scrollarmi di dosso tutte le mie incertezze, le difficoltà nel capire. Col tempo ho imparato a muovermi in questo ambiente così difficile e pericoloso. Mi sono bastate alcuni frasi dei nostri ospiti, subito troncate con decisione da mio padre, per mettermi sulla pista giusta. Per capire che ci doveva essere qualcuno che lo aiutava, che gli forniva le informazioni giuste, che lo indirizzava. Una sbirciatina a certe buste mi ha illuminato su dove cercare.
Mentre afferro la maniglia do un’occhiata dentro al negozio, attraverso il vetro. Lui è lì, che mi guarda benevolo. Sembra che mi stia aspettando, che abbia sempre saputo che sarei arrivato, un giorno. Forse ha progettato, con mio padre, tutto il mio percorso, la mia formazione. Ne è capace di certo. Tiene in pugno mio padre e lo comanda ne più ne meno come lui fa muovere i suoi burattini.
Questo pensiero mi blocca per un istante. E’ un attimo, una frazione di secondo, nemmeno il Libanese può averla percepita. Però è un’esitazione, che apre la strada ad altri pensieri. Rivedo il Generale e il suo gran daffare. La decisione con cui portava avanti i suoi inconfessabili progetti. Tutto quello che ha sacrificato sull’altare della sua idea. Le persone che sono morte, quelle a cui ha spezzato la vita. Le cose che sono successe e quelle che, peggio, non sono state e che hanno cambiato la vita di milioni di italiani. Sempre con la convinzione di aver ragione. Per essere Dentro non bisogna aver dubbi, lasciar spazio alle ragioni degli altri. Occorre perseguire il proprio scopo piegando tutto e tutti a tale necessità. Non curarsi dei danni collaterali. Usare le persone fino a quando la situazione lo richiede. Perché Dentro non c’è solidarietà, sei solo e devi combattere con gli altri per affermarti.
Ora la mia esitazione diventa palese. La mano, prima così decisa, tiene mollemente la maniglia, incerta sul da farsi.
Mio padre e, prima di lui, suo padre, hanno indirizzato tanti destini, hanno disposto degli altri nella convinzione di esserne padroni assoluti. Non si sono resi conto, non hanno voluto farlo, di essere a loro volta pedine nel gioco di altri. Non hanno voluto ammettere a loro stessi che il Dentro è una ragnatela in cui tutti sono contemporaneamente vittima e carnefice. Dove i ruoli si invertono a velocità vertiginosa. Anche il più bravo, il più potente si può ritrovare improvvisamente sotto scacco. Dove occorre una lucidità mostruosa per prevedere le mosse degli avversari ed impostare per tempo le proprie. Ma dove bisogna avere una ingenuità incredibile per non accorgersi del prezzo che bisogna essere disposti a pagare. Mi chiedo se tutta la fatica che ho fatto per liberarmi delle mie incertezze sia servita a qualcosa. Sono arrivato fino a qui solo per rendermi conto che tutta quella lucidità di pensiero è un’illusione.
Stacco lentamente la mano dalla maniglia. Il Libanese continua a fissarmi, immobile. Gli giro le spalle e mi allontano, mente cerco nella tasca della giacca il cellulare.
“Ciao Fede! Oggi mi sono liberato prima. Sì! Ti va se passo a prenderti?”
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