Sì, tu dov’eri nel ’95? Ora che l’hanno preso, che tutti i giornali ne parlano, questa domanda mi rimbomba ancora una volta nel cervello. Cosa facevi? A cosa pensavi?
Com’era la mia vita in quei giorni di un luglio ormai distante? Debbo fare uno sforzo per ricordare, aggrapparmi ai numeri, per cercare di ritrovare il filo dei ricordi. All’epoca avevo, per forza, 41 anni. Quindi i miei figli erano ancora bambini, uno di otto e l’altra di sei anni. Le fotografie aiutano la scarsa memoria. Di lì a poche settimane saremmo andati all’Elba, in campeggio, per le vacanze. Belle vacanze, con i rari disagi stemperati dal ricordo. “Papà, sei l’eroe dei fumetti!” mi avevano detto il giorno del temporale, quando ero riuscito a salvare la nostra tenda dalla furia della tempesta.
Fra foto e frammenti di ricordi emergono gite in canotto, passeggiate serali a Capoliveri con loro che, immancabilmente, si addormentavano durante il breve tragitto in macchina fino al campeggio e noi dovevamo poi caricarceli in spalla e posarli delicatamente nei loro sacchi a pelo cercando di non svegliarli. Avevamo una tenda grande, a casetta. Per noi era e resterà sempre “la tenda di Gheddafi”. La chiamavamo così. Mezza giornata per montarla e altrettanto per tirarla giù e compiere il miracolo di rinfilarla nei tre sacchi da cui era uscita. Una fatica improba, resa ancor più dura dalla necessità di arginare l’entusiasmo dei bambini. Che inevitabilmente veniva meno proprio nell’unico momento in cui servivano davvero: quando dovevamo reggere ognuno un montante per infilarci sotto i pali di sostegno. La tenda di Gheddafi ci ripagava però dandoci un sacco di spazio: due comode stanze, il cucinino, il soggiorno e anche un armadio di tela per i vestiti. Lì dentro facemmo quell’estate una delle foto più belle, ai bambini. Ci sono loro, in pigiama, seduti sulla soglia della loro stanza, sopra i materassini ed i sacchi a pelo, che leggono insieme un libro di fumetti. Lui con l’aria seria di chi si sente grande, perché in grado di leggere più velocemente della sorella, lei compresa nello sforzo di dimostrarsi all’altezza, ma anche fiera di avere un fratello così. Una delle poche volte, in realtà. Nei loro rapporti prevalgono ancora oggi i litigi e le male parole.
Erano anni dedicati a noi, come famiglia. A crescere i figli e a lavorare, con davvero poco tempo per pensare al fuori. Le notizie le leggevamo sul giornale o le sentivamo alla radio, ma non avevamo il tempo, la forza, di viverle. Era come se registrassimo diligentemente tutto quello che succedeva (perché abbiamo sempre avuto la voglia di informarci) ma senza che questo riuscisse a bucare il velo dell’impellenza dei bisogni quotidiani.
E allora quando ho sentito di Mladic, mi sono fatto un’altra volta quella domanda: dov’ero nei giorni di Srebenica? Se qualcuno, un giorno, (uno dei figli, per esempio) mi lanciasse addosso quella domanda, come un’accusa, anzi, come una sentenza, cosa potrei rispondere? Che ero troppo impegnato ad allevare loro? Che, comunque, non avrei potuto farci niente, fariseo fra i farisei? No, penso che non avrei il coraggio di rispondere. Chinerei il capo, con il cuore colmo di amarezza.
Il senso di colpa mi spinge però a fare l’unica cosa che posso, ora, per porre un sia pur fragile rimedio: parlarne. Parlare ancora e ripetutamente di allora, nella speranza di far capire a chi non c’era o a quelli che, come me, non hanno capito subito, non hanno visto o hanno voltato il capo dall’altra parte.
Per parlarne bisogna però partire dal senso delle parole. Il linguaggio è maledettamente importante, bisogna usarlo bene. Le parole hanno un senso al di là anche delle nostre intenzioni. Mi accorgo di aver detto all’inizio “quando l’hanno preso”. Che brutta espressione. Non si “prende” un essere umano. Sa di branco che fiuta la preda e che la incalza, reso frenetico dall’idea di banchettare con le sue viscere fumanti.
Mladic non è stato preso, è stato arrestato, dopo anni di latitanza, per le sue azioni durante le guerre jugoslave. Per spiegare queste “azioni” potrei usare i soliti termini che trovate a tonnellate sui giornali: massacri, eccidi, crimini di guerra. Sassi consumati dal troppo uso, che non trasmettono più il messaggio che hanno dentro. Bisogna cercare altre parole, altri mezzi per dire cosa è stata Srebenica. Per cercare di capire come, nell’illogica classifica dell’orrore, abbia raggiunto la cima. Il perché essa non ricada unicamente su chi ne è stato il responsabile materiale, ma su tutti noi, soprattutto su noi occidentali.
Come si fa a ricostruire in poche frasi il clima di quei tempi, in quei posti. Parlare di una situazione straordinariamente complessa, dove il bene ed il male si mescolano in un viluppo inestricabile. Dove le azioni sono (anche) conseguenza di fatti vecchi di quasi mille anni, che trovano però nuova linfa da concretissimi fatti attuali. Fatevi un giro, se lo stomaco vi regge, nei siti Internet che parlano di Srebenica, soprattutto quelli slavi. Vi farete un’idea, non dei fatti, ma della distanza immensa che ancora divide la visione dell’uno da quella dell’altro (potete partire da qui e seguire i link delle note a piè pagina).
Eppure le cose non sembravano tanto complicate. Da anni la regione era devastata da una serie di guerre che, al fondo, hanno l’odio fra le varie etnie che vivono, imbricate fra loro, nella regione. Dopo lunghe, pavide esitazioni, l’ONU aveva deciso di schierare i suoi Caschi Blu per dividere i contendenti e proteggere la popolazione civile dalle abituali violenze con cui si consumava ogni pur modesta conquista di territorio. Per questo aveva creato intorno a Srebenica una “zona franca”.
Pensate per un attimo di essere là, in mezzo ad una guerra dove non c’è divisione fisica con i nemici, perché un villaggio è con i serbi e quello vicino con i bosniaci e voi siete serbo in quello bosniaco oppure bosniaco in quello serbo. Se siete un uomo dovete essere eliminato, in quanto soldato avversario. Se donna, sarete fecondata a forza con il loro seme, in modo da far prevalere la loro razza. Se bambino, sarete solo un giocattolo in balia del loro capriccio, che non deve, in ogni caso, poter diventare adulto e potersi quindi vendicare, un giorno.
Ecco, pensate a questa situazione ed all’arrivo dei Caschi Blu. Pensate alla zona franca. Un posto ben presidiato, con grandi soldati equipaggiati a dovere, che sono lì per proteggervi. Anche voi avreste raccolto le poche cose che siete in grado di trasportare e vi sareste messi in viaggio. Assieme alle decine, centinaia poi migliaia di persone che si sono riversate a Srebenica nei primi mesi del 95. Alla fine erano decine di migliaia, accampate precariamente, ma al sicuro.
Intanto io e mia moglie avevamo appena superato le montagne russe della gioia e del dolore. All’inizio dell’anno, inaspettata, era spuntata un’ipotesi di terzo figlio. Prima un piccolo ritardo, poi il test a fugare ogni dubbio. Dentro di noi i sentimenti che si mettevano in moto tumultuosamente, i problemi pratici, bisogna che troviamo subito una casa più grande, ce la faremo con i soldi?, ce la farà tua madre a darci ancora una mano? Però il tutto era reso semplice dalla gioia immensa di un’altra vita in arrivo. Poi, quando nella nostra testa si era formato saldamente uno spazio per il nuovo venuto, ecco la sensazione di qualcosa che non va nella direzione solita. Le parole del medico, la conferma dell’ecografia. Il monitor ci mostra un’immagine chiara ed impietosa. Un grumo secco attaccato ad un picciolo, come quelle ciliegie che, a volte, non riescono a maturare e stanno lì, una piccola massa avvizzita, in attesa di cadere dall’albero. L’ospedale, il raschiamento ed un’emorragia che avrebbe potuto portarmi via anche lei. Momenti difficili, ma avevamo gli altri due e tante cose da fare insieme.
A Srebenica, in quei giorni, nulla era come sembrava. Forse i profughi non erano solo profughi, forse quelli che davano loro la caccia erano, ufficialmente, forze di polizia preposte alla protezione della popolazione, forse gli occidentali salvatori non avevano capito un’acca di tutta quella situazione e poi erano molto più interessati a quello che si diceva nei rispettivi paesi piuttosto che a quanto poteva succedere lì.
E’ stato così che è potuto accadere. E’ stato così che i soldati di Mladic hanno capito di poter osare e si sono presentati a Srebenica. E’ stato così che il comandante olandese del contingente si è fatto riprendere in un video a chiacchierare amabilmente con Mladic e brindare con lui, mentre i soldati serbi procedono alla separazione dei profughi mussulmani, da una parte gli uomini e dall’altra le donne.
E voi lì, guardate attoniti i vostri angeli custodi che fanno entrare gli aguzzini, che li aiutano, fino a dargli il carburante per i camion che vi debbono portare via. Li guardate senza riuscire a capire il perché. Voi lo sapete, voi avete occhi per vedere, voi non credete per un istante alla debole scusa accampata “li portiamo in posti più sicuri che qui non si possono tenere al sicuro così in tanti”. Vi chiedete come è possibile, siete annientati dal tradimento che si consuma sulla vostra carne, che vi strappa per sempre le persone che amate, che si porta via la vostra stessa vita.
A Srebenica si consuma la più grande vergogna del nostro Occidente opulento e distratto. Quei giorni di luglio del 1995 si sono portati via il nostro onore, la nostra dignità di esseri umani, la nostra capacità di indicare agli altri la via della democrazia, della convivenza. Leggere gli atti che cercano di spiegare il perché del mancato intervento dell’ONU, frugare fra i ritardi, la scarsa conoscenza dei luoghi, le indecisioni che hanno portato a questo, mi fa orrore. Ma bisogna avere la forza di non fermarsi, di continuare a frugare. Ecco allora la scarna cronaca che potete trovare oggi su Wikpedia: “Durante i fatti di Srebrenica, i 600 caschi blu dell'ONU, le tre compagnie olandesi Dutchbat I, II e III, non intervennero: motivi e circostanze non sono ancora stati del tutto chiariti. La posizione ufficiale è che le truppe ONU fossero scarsamente armate e non potessero far fronte da sole alle forze di Mladić. Si sostiene, inoltre, che le vie di comunicazione tra Srebenica, Sarajevo e Zagabria non fossero ottimali, causando ritardi e intoppi nelle decisioni. Quando i serbi si avvicinarono all'enclave di Srebrenica, il colonnello Karremans diede l'allarme e chiese un intervento aereo di supporto il 6 e l'8 luglio 1995, oltre ad altre due volte nel fatidico 11 luglio. Le prime due volte il generale Nicolaï a Sarajevo rifiutò di inoltrare la richiesta al generale Janvier nel quartier generale dell'ONU a Zagabria perché le richieste non erano conformi agli accordi sulle richieste di intervento aereo. Non si trattava ancora, infatti, di atti di guerra con battaglie a fuoco. L'11 luglio, quando i carri armati serbi erano penetrati nella città, Nicolaï inoltrò la domanda di rinforzi a Janvier, che inizialmente rifiutò. La seconda richiesta dell'11 luglio fu onorata ma gli aerei (F-16) che stavano già circolando da ore in attesa dell'ordine di attaccare avevano nel frattempo ricevuto ordine di tornare alle loro basi in Italia per potersi rifornire di carburante. Alla fine, solo due F-16 olandesi procedettero ad un attacco aereo, praticamente senza alcun effetto. Un gruppo di aerei americani apparentemente non fu in grado di trovare la strada”.
Più di ottomila persone hanno pagato con la vita questa nostra inettitudine. Tutte le altre, i sopravissuti, ne porteranno per sempre il marchio nella testa e nelle viscere.
Ed ancora una volta mi chiedo “Tu dov’eri?”. Se le decisioni dei comandanti dei Caschi Blu erano (e sono ancora oggi negli altri posti dove si continua fare la guerra) orientate dagli umori dell’opinione pubblica dei rispettivi paesi, come posso pensare di essere innocente, di non aver colpe, di poter continuare la mia vita come se niente fosse. Una scrollata di spalle e via. Tanto sono cose lontane e quelle poi non sono persone, sono come delle bestie.
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