A. Modigliani - Nudo sdraiato |
Getto per l’ennesima volta un’occhiata distratta dalla finestra, poi torno senza fretta alle mie faccende. Il molle pomeriggio domenicale non offre distrazioni. Il caldo comincia a farsi sentire e non vedo l’ora di finire per poter tornare dabbasso, dove c’è più fresco. Un velo di sudore mi bagna la pelle, nonostante abbia indosso solo un corto vestitino di cotone.
Istintivamente ne alzo ed abbasso l’orlo, per far circolare un po’ d’aria. Lo specchio rimanda la fugace immagine dei miei fianchi denudati. Allora mi fermo per un attimo a contemplare la mia figura riflessa. Sollevo il vestito più lentamente, scoprendo le mutandine di pizzo bianco e poi, più su, la rotondità dell’ombelico. Mi muovo incrociando le gambe e osservo l’effetto. Non male. Con l’altra mano mi slaccio un paio di bottoni in alto, facendo poi cadere una spallina sul braccio. Il capezzolo turgido fa capolino dalla stoffa leggera. Mi dico che sono davvero uno schianto. Ancora capace di far girare la testa agli uomini, nonostante tutto. Che cretina! L’essere sola in casa mi fa comportare da adolescente a quasi trent’anni. Lascio ricadere l’orlo del vestito e mi rimetto al lavoro.
Quando capito di nuovo dalla finestra guardo ancora giù, meccanicamente. Siamo in una zona residenziale, alle spalle dei grandi viali che portano in centro e dalla nostra stradina oggi non passa proprio nessuno. Gli alberi sprecano la loro ombra sul marciapiede deserto. Mi dico che, forse, anch’io sto sprecando qualcosa.
Quando capito di nuovo dalla finestra guardo ancora giù, meccanicamente. Siamo in una zona residenziale, alle spalle dei grandi viali che portano in centro e dalla nostra stradina oggi non passa proprio nessuno. Gli alberi sprecano la loro ombra sul marciapiede deserto. Mi dico che, forse, anch’io sto sprecando qualcosa.
Ricaccio indietro i pensieri che da tempo ormai mi fanno compagnia e mi accingo a riprendere il lavoro, quando lo vedo spuntare dall’angolo in fondo alla strada. Lo riconosco subito, nonostante la distanza, per il suo incedere dondolante, così diverso dal nostro. Mi incollo al vetro per vedere meglio.
Sì! Non mi sono sbagliata. E’ proprio un marziano.
E sta venendo qui.
Dio! E’ la prima volta che ne vedo uno. La curiosità mi divora, cerco di non perdermi nemmeno un dettaglio. Non sapevo che ce ne fossero, nella nostra città. Questi esseri misteriosi, inavvicinabili, con cui nessuno riesce a comunicare, mi affascinano. Non sembrano pericolosi e, dopo il pandemonio iniziale, sono stati accettati dai più come un dato di fatto. Ci sono e basta. Stanno in mezzo a noi senza dare fastidio, ma il muro di silenzio che c’è fra noi e loro crea un certo disagio. E’ come dover convivere con delle statue, piovute chissà da dove. A me, il fatto di non poter comunicare con loro, da un senso di impotenza. Lo guardo, avida, mentre avanza caracollando sul nostro marciapiede. Vorrei far durare più a lungo questo momento. Perché lo so che poi mi tormenterò pensando a quello che avrei potuto fare o dire. E’ il mio destino. Faccio le cose di impulso, per poi rimuginare a lungo, troppo a lungo, su quello che ho fatto o non ho fatto.
Di colpo prendo una decisione. Mi fiondo giù dalle scale, attraverso il giardino e, prima che lui abbia il tempo di sfilare davanti al nostro cancello, lo apro e mi fermo lì, in attesa. Mi ha vista ma non mostra alcuna reazione. Continua ad avanzare sulle sue corte gambe. Quando è abbastanza vicino gli faccio segno di entrare, sorridendogli. Il mio gesto lo fa fermare. Non c’è modo, però, di capire le sue reazioni. Non ha rughe che diano un’espressione al suo corpo massiccio. L’unica cosa mobile in lui sono gli occhi, intensi e vivaci, che mi scrutano attentamente. Percorre il mio corpo più volte con lo sguardo, ma in maniera lieve, piacevole. Lascio che mi studi per un periodo che sembra eterno. So di essere in disordine, sono scesa così come mi trovavo, ma non mi sento giudicata, per cui lo lascio fare. Poi, senza alcuna esitazione, entra nel giardino.
Emozionata, gli saltello intorno conducendolo verso il pergolato. Intanto ho modo di osservare da vicino la sua pelle dai riflessi verdastri, tesa su quel corpo che assomiglia vagamente ad una melanzana.
E’ strano. Visti in televisione questi essere appaiono buffi. I loro movimenti sono goffi, gli arti sproporzionatamente piccoli rispetto al corpo imponente. Eppure l’individuo che è davanti a me emana un senso di forza e di dignità. Non è affatto ridicolo, anzi.
Si accomoda con una certa fatica nella poltrona che gli offro, continuando a carezzarmi con lo sguardo. Anch’io lo guardo, osservando con attenzione ogni parte del suo corpo.
Stiamo così, in silenzio, per qualche istante. Mi viene in mente, poi, di aver sentito che hanno un grande bisogno di acqua. Allora mi alzo e vado a prenderne una caraffa. L’acqua fresca suscita il suo interesse. Emette per la prima volta un breve suono melodioso. Gliene verso un bel bicchiere. Nel chinarmi scopro, involontariamente, il seno. Quando mi sono guardata allo specchio ho dimenticato di allacciare di nuovo i bottoni ed ora il mio seno danza proprio davanti ai suoi occhi. Mi ricompongo con una certa naturalezza. Del resto loro non conoscono l’uso dei vestiti, chissà se sono in grado di avere emozioni al riguardo.
Questo fatto di non poter comunicare è pazzesco. Ho davanti a me un marziano, un vero marziano (mi viene quasi da dire in carne ed ossa, ma non so se vale per loro) e non posso far altro che starmene impalata di fronte a lui. In realtà non sappiamo nulla di loro. Da dove vengono, come arrivano. Ad un tratto sono qui. Non ci sono astronavi o dischi volanti. Nulla. Hanno creato piccole comunità in giro per il mondo senza dare particolari problemi, ma nessuno è ancora riuscito a trovare il modo di parlare con loro. Per cui ci troviamo a vivere fianco a fianco ma è come se fossimo su universi differenti.
Lo osservo mentre beve. Non c’è altro da fare che guardarsi a vicenda. L’unica cosa che ho capito è che sembra molto interessato al mio corpo. Mi allungo nella poltrona davanti a lui e lascio che i suoi occhi ispezionino ogni centimetro della mia pelle. Del resto io sto facendo la stessa cosa nei suoi confronti. Mi piace la tensione del suo corpo, avrei voglia di provare a carezzarlo, ma non oso, per paura di una sua reazione. Eppure, deve essere piacevole farsi scorrere sotto i polpastrelli quella pelle spessa e morbida allo stesso tempo. Potrebbe essere un modo per parlarsi. Al solo pensiero un piccolo brivido mi scende giù per la schiena.
Offro al suo sguardo tutta me stessa, senza timori. Vedo i suoi occhi risalire lentamente la curva delle gambe, lungo le cosce, fino ai lembi scostati del vestito. So che in quella posizione gli mostro le mutandine, ma non me ne curo. Anzi, allargo lentamente le ginocchia per consentirgli di vedere meglio. Dobbiamo conoscerci e, se questo è il modo, a me va bene. Anch’io sono affamata di ogni suo dettaglio e non mi stanco di cercarne di sempre nuovi.
Un movimento del suo braccio destro mi fa ricordare una cosa, che accende ancora di più la mia curiosità. Ha mosso il braccio o è la pelle del fianco che si sta sollevando? Cerco di guardare meglio. Ho visto in televisione che questi esseri possiedono un organo copulatore, una specie di pene, inserito, quando è a riposo, in una teca proprio sotto il braccio destro.
Il mio ospite sembra accorgersi del mio interesse perché scosta un poco il braccio dal corpo. Intanto non smette di ispezionarmi con lo sguardo. Ora risale oltre il ventre, fermandosi a lungo sul petto. La pelle del suo fianco sembra davvero gonfiarsi lentamente. Allora azzardo una prova. Mi sbottono ancora di più il vestito e scopro completamente i seni. Lui guarda con vivissimo interesse i capezzoli inturgidirsi nella piena luce del sole. La teca di pelle si apre lentamente e l’organo copulatore inizia a distendersi davanti a me.
Con il cuore che mi batte furiosamente nel petto osservo quello stranissimo affare. E’ una specie di braccio snodabile, in tre parti, come quelli delle gru meccaniche. Le prime due parti sono simili alle braccia, solo meno secche. In cima c’è l’organo vero e proprio. Subito non riesco a vederlo bene ma poi si gonfia ancora e si distende un po’ di più. Ha un colore più scuro, come quello del cuoio. Assomiglia ad un grosso pene ma è fortemente ricurvo ad uncino e senza alcun segno di strozzatura fra il corpo ed il glande.
Il suo sesso si avvicina a me grazie alle lunghe leve delle sue parti snodabili. Mi tocca appena un piede dandomi un piccolo brivido. Gioca un po’ con le mie dita come a comprenderne il significato poi, con il bordo esterno dell’uncino, inizia ad accarezzarmi la gamba. Il suo tocco è così morbido che provo un intenso piacere. Allora mi avvicino a lui ed inizio anch’io a percorrerne la pelle con le dita. La cosa deve piacergli perché emette un suono leggero, quasi un soffio. Intanto continua a risalire lungo il mio corpo, seguendone ogni curva. Arrivato a contatto con l’orlo di stoffa sembra perdersi, indeciso sul da fare. Con pochi gesti finisco di aprire il vestito e lascio che scivoli a terra. Non penso a quello che sto facendo. Lo faccio e basta, non potrei sopportare di fare diversamente. Lui avanza con gesti lenti fino all’altezza dell’ascella sinistra. Lì si ferma per un istante infinito. Quindi cerca di penetrarmi delicatamente nell’incavo fra il braccio ed il seno. Nello stordimento mi ricordo di quello che ho sentito dire una volta: le loro femmine hanno proprio lì il loro organo sessuale.
Allora gli afferro il sesso con tutta la dolcezza di cui sono capace e comincio a carezzarglielo, poggiandomelo in mezzo ai seni. Stiamo un po’ così, guardandoci intensamente negli occhi. Sento il suo organo pulsare di desiderio. Anch’io lo desidero. Piano piano me lo faccio scendere lungo la pancia, fino al pube. Mi libero degli slip e lo guido a conoscere il mio sesso. Il contatto con quella pelle aliena mi eccita grandemente. Lo sento mentre mi esplora delicatamente. Il suo organo uncinato, così drammaticamente inadatto al mio godimento riesce ugualmente a darmi, ad ogni tocco, un’onda di piacere che si irradia dal ventre, strappandomi piccoli gemiti. Io, intanto, non smetto di carezzare il suo corpo massiccio, percorrendolo tutto con il palmo delle mani e poi con la punta delle dita, leggera ed intensa secondo i ritmi del desiderio, fino quasi a graffiarlo.
Ho voglia di essere penetrata, di fare l’amore con lui, di ricevere il suo sesso dentro di me, di vibrare insieme del più puro piacere. Premo istintivamente il suo organo sulla mia vagina e allora mi accorgo che c’è un cambiamento, una trasformazione in quel coso turgido. Non più inutile gancio ma, finalmente, membro diritto, potente, splendidamente modellato sulle forme del mio ventre assetato.
Non mi chiedo come sia possibile, l’eccitazione mi fa lievitare mentre lui va e viene dentro di me. Il mio desiderio va e viene con lui, i miei fianchi vanno e poi vengono con un ritmo perfettamente calibrato. Anche la luce del sole va via e poi ritorna al chiudersi ritmico delle palpebre. Il giardino, la casa, tutto il mondo pulsano con noi in un andare e venire che prende nel fondo più intimo dell’anima. Mentre volo sulle ali di un’eccitazione mai provata finora sento che, ancora, qualcosa di nuovo sta succedendo. Una parte del suo organo si trasforma nuovamente, si fa lingua, non so come possa succedere, ma è una lingua viva che si avviluppa al clitoride per spremerne tutta la sensibilità di cui è capace. E’ una lingua che va e viene intorno al centro del mio piacere, strappandomi gemiti quasi dolorosi. E’ ormai tutta la mia vita che va e che viene con i movimenti calibrati del suo sesso che è membro e lingua contemporaneamente. Sì, tutta la mia vita vibra insieme a lui. Dal fondo della memoria sono le mie paure di bambina che vanno e vengono, va e viene anche lo sgomento che mi assaliva quando temevo di essere abbandonata. Ed è mio padre che ora va e viene, assieme al rancore che continuo a provare per non averlo avuto accanto quando ne avevo così bisogno. E sono i troppi uomini che ho avuto troppo presto, anche loro vanno e vengono ed è il figlio che non ho voluto che va e viene e, con lui, il rimpianto che accompagna ogni giorno della mia vita. Intanto il suo sesso prodigioso suona tutta la scala armonica della voluttà, accarezza tutti i tasti del mio grembo con sublime maestria. Vanno e vengono con le onde del desiderio i troppi errori che ho compiuto, per sciogliersi finalmente in lacrime copiose che annaffiano la sua pelle, prendendone i riflessi di smeraldo.
Il ritmo si fa più serrato. Diventa un’onda d’urto. Shock luminoso. Acciaio puro. Pressione. Tuono. Vortice impetuoso. Vibrazione e rotazione. Apnea. Vita che va e che viene. La mia vita. La sua vita. La vedo, la sua vita. La sento e la vedo. La sua casa, lontano. La famiglia laggiù. Qui, ora lui e gli altri, pochi. Colpi sempre più rapidi. Martello. Incudine. Esplosione nucleare. Rantolo. Il viaggio. Distacco doloroso. Necessità di vedere. Ansia di conoscere. Salto nel buio. Cuore in gola. Diga che crolla. Amore.
E mentre l’orgasmo comincia a salire dal più profondo del mio essere, una domanda preme nel mio cervello: perché noi? Perché io e te, ora? Perché solo noi, mentre gli altri non sono riusciti? Perché io con te, dopo aver mille volte fallito con mille uomini, immensamente più simili a me?
Un lungo suono, un suo canto melodioso si intreccia con l’urlo che scuote la mia gola, suprema fusione nel momento infinito del piacere culminante. Ancora gli chiedo, negli ultimi rantoli, più lentamente: perché? Perché?
La sua dolcissima risposta scende ad avvolgere come miele ogni fibra del mio corpo, reso languido dalla sazietà dell’amore.
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