Il posto della mente è una piccola oasi letteraria dove possiamo andare quando abbiamo bisogno di qualcosa di diverso. Di leggere, o scrivere storie. Storie inventate, come quelle che io, da principiante, sottopongo al vostro giudizio, oppure storie vere, piccoli "frammenti di vita" che scivolerebbero immediatamente nell'oblio se qualcuno di noi non li raccogliesse.

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lunedì 8 agosto 2011

Paco de Luna - Terzo quadro [gianbarly] La corda spezzata 3 (bozza)


“Vieni! Dio mio, devi venire subito!”
La voce di Lourdes non ammetteva repliche. Erano giorni che pensavo di chiamarla e ora che era lei a farlo, io me ne stavo lì, con il telefono in mano, senza risponderle.
Eppure, visto che la questione dell’intervista doveva andare avanti, avevo pensato di includere anche lei nel racconto. Le avrei chiesto di intervistarla e l’avrei ripresa mentre parlavamo di Paco, mi sarei fatto dire di lui, dei suoi aspetti più familiari, di come si erano conosciuti. L’idea mi piaceva, più ci pensavo e più la trovavo perfetta da ogni punto di vista.


Intanto lei aveva una bella figura, un volto che “bucava”, sarebbe senz’altro piaciuta. Poi, ed era un particolare non da poco, aveva quel modo caldo ed appassionato di parlare del suo uomo, un grande trasporto, proprio adatto a coinvolgere il pubblico. Ma, in realtà, l’idea mi piaceva soprattutto perché mi consentiva di rimandare un nuovo faccia a faccia con Paco. 
“Presto, Franco!”
Sì, l’avrei sicuramente chiamata, anche per uscire dal clima soffocante della redazione. Da quando Maria e Luciano avevano preso in mano la direzione, le cose erano cambiate. L’aria si era fatta pesante per tutti ma in particolare per me. Ero stato tagliato fuori da ogni progetto. L’Antonia sembrava divertirsi ad affidarmi i compiti più ingrati. Mi sembrava di essere ritornato ai miei primi giorni di lavoro, ma con, in più, un senso di amarezza. Come al solito aveva ragione Paolo: non mi restava altro che il servizio su Paco, per riconquistare la mia posizione.

E ora quella telefonata. Lourdes, con la voce spezzata dall’urgenza, mi parlava a raffica. Io non riuscivo a concentrarmi su quello che mi stava dicendo e coglievo solo alcune parole qua e là. Capivo solo che, ancora una volta, i miei piani venivano buttati all’aria. Dovevo trovare il modo di dirle della mia idea, non potevo farmi sviare ancora una volta dai miei propositi.
“La chitarra, Franco! Ma mi stai a sentire?”
Sì, ti sento, avrei voluto risponderle ma la mia testa pensava ad altro, come se, tutto ad un tratto, ogni cosa, tranne quella, fosse diventata urgente. Pensavo a Fimère, a quello che era successo fra noi. Erano passati dei giorni e non ci eravamo ancora risentiti. I ricordi di quella strana notte mi si sovrapponevano nella mente, aggrovigliandosi in una massa in cui non riuscivo più a distinguere il vero dal sogno. Quello che riguardava lei, dalla magia musicale di Paco. Avrei dovuto rivederla, subito.
Alla fine riuscii a dire solamente
“Vengo” e riattaccai.

Mi aspettava sulla porta, rosa dall’impazienza. Quando mi vide salir le scale uscì fuori, riaccostando il battente dietro di sé.
“Paco è dentro, nel suo studio, non ci deve sentire!”
“Ma …”
“Zitto! Ti prego, non facciamoci sentire. Mi devi credere, la situazione è grave! Io che lo conosco bene non l’ho mai visto in questo stato. Ho paura per lui, Franco!”
Mi prese una mano e me la strinse con forza. L’altra me la appoggiò appena sulla bocca, per impedirmi di parlare.
Passarono secondi eterni, poi di colpo, con un filo di voce:
“Ha rotto la chitarra”
Non aggiunse altro. Alzò il viso verso di me fissandomi con straordinaria intensità. Mi sfidava.
Deglutii più volte. Il contatto con le sue mani mi trasmetteva un’energia sconosciuta. Distolsi lo sguardo, poi la spinsi delicatamente da parte ed entrai.

Trovai Paco dove mi aveva detto lei. Era seduto sul bordo della brandina che era nell’angolo più distante dalla porta. Stava chino, tutto curvo in avanti, con in mano la chitarra.
La stanza era in penombra e mi ci volle un po’ per riuscire a distinguere bene gli oggetti. Intravedevo Paco che faceva scorrere in continuazione le dita sullo strumento. Il quale era decisamente malconcio. Aveva un buco nella cassa, sul bordo in basso, all’altezza del ponte, come se fosse stata sbattuta con forza contro un oggetto metallico. Alcune corde erano saltate ed il manico era leggermente fuori asse.
Mi chiedevo cosa potesse averlo spinto a ridurre così lo strumento. Però non osavo chiederglielo. Per il momento mi limitavo ad osservarlo, aspettando una qualche illuminazione che mi guidasse a fare la cosa giusta.
Seduto sul bordo del basso lettino quel gigante ripiegato su se stesso faceva una strana impressione. Sembrava coccolare il corpo morto della sua amata. Teneva la chitarra con una delicatezza infinita, come a proteggerla da qualche pericolo. Passava la mano destra sulla cassa, seguendone con i polpastrelli ogni linea. Batteva piano la punta delle dita per sentire la consistenza del legno. Arrivato dove c’era l’orrendo buco che metteva a nudo l’interno della cassa, seguì con l’indice tutte le asperità del legno scheggiato, togliendo con cura tutti i piccoli pezzi che erano rimasti attaccati alla cassa. Guardò a lungo dentro il rosone, verificandone l’interezza. Rimise il manico in asse e risalì la tastiera fino alla paletta. Cominciò ad armeggiare con le chiavi per togliere le due corde spezzate.
Quella lunga operazione lo impegnava molto. Nel silenzio lo si sentiva ansimare per lo sforzo. Aveva una concentrazione assoluta, che lo isolava completamente. Penso che avrei potuto mettermi ad urlare e a saltargli davanti che non se ne sarebbe accorto.
Ora tutta la sua attenzione era rivolta alle corde rimaste. Le esaminò ad una ad una, le fece vibrare, strinse delicatamente le chiavi per tenderle meglio. Il manico si muoveva, non essendo più saldamente attaccato alla cassa, per cui dovette trovare un precario equilibrio. Batté ancora sulla cassa, ora con il pollice ora con le altre dita unite, poi tentò qualche accordo.
Risistemò ancora le corde, fece uscire alcuni frammenti di legno da dentro la cassa, poi di colpo:
“Ce l’hai la tua roba?”
Sobbalzai.
“Allora, l’hai portata la telecamera?”
La sua voce si era fatta dura, impaziente.
Annuii.
“Che aspetti? Accendila!”
Mi scossi ed iniziai ad estrarre dallo zaino la telecamera da banco che mi ero portato dietro più che altro per abitudine. Intanto lui accese l’amplificatore e dei faretti che lo illuminarono a dovere. Poi sistemò il microfono e, senza curarsi di vedere se io ero pronto, cominciò a cantare.
La sua voce risuonò forte in quell’ambiente angusto, scaldando immediatamente l’aria. Mentre facevo partire la registrazione pensai che non ci sarebbe mai più stata una voce come quella nella mia vita.

Cantava una canzone nuova, che non avevo mai sentito. Le dita sfioravano appena la chitarra, traendone dei suoni flebili. Per quanta cura ci mettesse, lo strumento non era in grado di accompagnarlo in modo adeguato e lui faceva in modo che si sentisse il meno possibile, ma era chiaro che quel canto era dedicato a lei e, anche se menomata, lei ci doveva essere.
Lo guardavo affascinato. Ogni tanto dovevo lavorare sulla telecamera ma poi tornavo subito ad osservarlo, riempiendomi gli occhi di quella figura imponente eppure fragile, intenta a celebrare la cerimonia funebre della sua chitarra.
Dopo la prima canzone ne attaccò subito un’altra e poi un’altra ancora. Ad un certo punto mi volsi verso la porta. Appoggiata allo stipite c’era Lourdes che ascoltava come trasognata quelle note meravigliose. Sulle sue guance scendevano copiose le lacrime.
Paco stava usando la sua voce in un modo nuovo che non gli avevo mai sentito. Era meno roca del solito, più melodica, incredibilmente piena. Mi resi conto che cercava, in quel modo, di sostenere le defaillance della chitarra.
Terminò con una canzone vecchia, una delle sue che apprezzavo di più. Mentre la sua voce si spegneva tirò ancora alcuni accordi poi si fermò.
“E adesso vai, sparisci!”

Raccolsi in fretta la mia roba e volai via. Lourdes mi seguì fin sulla porta. Mi girai per salutarla e lei mi prese le mani nelle sue.
“Ci vediamo domani, al solito bar” mi disse.
A metà scala mi voltai di nuovo, perché non mi aveva detto l’ora. Lei capì ed alzò la mano aperta. Era alle cinque.

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