Il posto della mente è una piccola oasi letteraria dove possiamo andare quando abbiamo bisogno di qualcosa di diverso. Di leggere, o scrivere storie. Storie inventate, come quelle che io, da principiante, sottopongo al vostro giudizio, oppure storie vere, piccoli "frammenti di vita" che scivolerebbero immediatamente nell'oblio se qualcuno di noi non li raccogliesse.

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sabato 28 maggio 2011

IL LINGUAGGIO DELLA SCRITTORE (poche idee e un po' confuse)

Donna che scrive - J. Vermeer
Comincio qui una mia nuova digressione sulla scrittura, sempre partendo da una sollecitazione esterna. Questa volta è Medina che mi scrive una mail accorata, che sintetizzo così:

“Ho pensato che il mio modo di scrivere è arcaico e stucchevole, soprattutto nei flashback dove c’è più realtà che fantasia. A me piace, ma forse dovrei vivacizzarlo un po’? Capisci l’importanza di pezzi ‘freschi’ un po’ più corposi? Probabilmente lo stile che piace ai ‘Young-adult’ (target di mercato editoriale) è un altro.”
Qual è, quindi, il linguaggio giusto?
Partirò dicendo che è giusto un linguaggio adeguato allo scopo che ci si prefigge. Se si pensa ad un preciso segmento di lettori - gli young adult, ad esempio – è evidente che si debba utilizzare uno stile di scrittura, un linguaggio che risulti riconoscibile, che sia vicino alle aspettative di quello specifico gruppo. Se lo scopo è il successo, un successo ampio, enorme, mondiale, come quello della Rowling, saremo costretti ad usare un linguaggio alla portata di tutti, non particolarmente settario.

Lo scopo è importante. Sia a livello generale, che per la singola opera. Giusto per chiarire il concetto, quando cito il livello generale, parlerò un po’ di me stesso. Io ho cominciato a scrivere circa un anno e mezzo fa. La mia si può definire una vocazione tardiva, nata per un’esigenza interiore, per avere uno spazio mentale tutto mio. Non per pubblicare o per puntare al successo. Tuttavia, ho avuto in mente da subito un mio obiettivo, smisuratamente ambizioso. Quello di trovare un linguaggio adeguato ai tempi che stiamo vivendo. Tempi di grandi cambiamenti, probabilmente molto più grandi e profondi di quello che ci appare. I nuovi mezzi (Internet, Wikipedia, Facebook ecc…), la globalizzazione (e tutto ciò che ruota intorno a questo) stanno cambiando l’uomo. Il suo modo di pensare, di vedere la realtà, i suoi valori ed obiettivi, le regole del gioco. Tutto cambia in fretta e noi oggi non abbiamo occhi per vederlo. In questo l’arte, tutte le arti, sono terribilmente indietro. La musica, che normalmente è la prima a cogliere il nuovo, è ferma a quarant’anni fa. Non parliamo del resto. Ecco, il mio sogno è quello di trovare un linguaggio che sia in grado di svelare queste novità. Medina, che conosce il mio stile di scrittura, può ben valutare quanto questa ambizione sia abissalmente distante dall’essere realizzata. Perciò sento che la mia scrittura è antica e inadeguata. Ma non smetto di sperimentare approcci differenti, anche se so che non raggiungerò mai l’obiettivo.

Il linguaggio è il modo con cui si trasmette il messaggio e le emozioni che si vogliono suscitare. Per cui diventa terribilmente importante. Basta pensare al Bob Dylan degli inizi degli anni ’60 come risultava “giusto”, soprattutto se paragonato alla musica ufficiale che passava alla radio ed in TV nell’Italia di quegli anni. O cercare di immaginarsi come sarebbe stonato l’utilizzo del linguaggio (pur sublime!) di Guy de Moupassant in un racconto di oggi. I linguaggi si consumano e si rinnovano, come tutte le cose. Non esistono modelli, né si possono confezionare ricette. La magia dello scrittore (quello vero, ahimè!) sta proprio nel trovare il linguaggio che è in grado di trasportare l’idea dentro il cervello e dentro la carne del lettore.
E allora, quali caratteristiche deve avere lo stile narrativo? Per spiegarlo ricorrerò ancora a quel fondamentale libretto che è “Lettere a un aspirante romanziere” di Mario Vargas Llosa. Dice l’autore che uno scritto è buono se ha un forte potere di persuasione. Perché lo stile della scrittura deve portare il lettore ad uno stato di sospensione (più o meno profondo) che gli consenta di vedere come reali i fatti che gli vengono narrati, anche se assolutamente fantastici. Solo se si crea questa magia si ha una vera opera di finzione. E’ questo stato di sospensione (che tutti noi abbiano provato leggendo qualcosa che ci piaceva) che fa passare le emozioni. “L’efficacia della scrittura romanzesca dipende da due fattori: la sua coerenza interna e il suo carattere di necessità”. Come spiegarlo meglio! Llosa si dimostra uno scrittore formidabile anche quando parla di questioni che sarebbero aridamente tecniche (assieme a questo suo libro mi hanno regalato anche il “Ricettario di scrittura creativa” di Stefano Brugnolo e Giulio Mozzi. Ebbene, quest’ultimo l’ho trovato affatto interessante, nonostante sia ben documentato ed assolutamente completo. Ha lo stesso calore di un libretto di istruzioni). Ma torniamo a noi.
Due fattori, dicevamo. Il primo è quello che Llosa chiama la coerenza interna. Cioè uno stile di scrittura adeguato a quello che si vuole raccontare. Non possiamo usare lo stesso linguaggio in un racconto biografico e, mettiamo, in un thriller. In una delle due opere otterremo un fastidioso senso di inadeguatezza che annullerebbe immediatamente la forza di persuasione dello scritto.
Medina avrà certo capito che non ho fatto questo esempio per caso. Il fatto è che, nel pensare alla sua domanda e man mano che mi risultava chiaro quello che avrei dovuto scriverle in risposta, mi sono accorto (ahinoi!) di un problema. Gli scritti a cui lei si riferisce nella sua mail (“soprattutto nei flashback dove c’è più realtà che fantasia”) fanno parte di un romanzo giallo che stiamo scrivendo a più mani. Leggendoli separatamente dal resto, sono molto belli ed estremamente interessanti. Ho sempre avuto però anche un vago smarrimento, che solo ora comprendo. Questi pezzi sembrano scritti per un progetto diverso, forse un’autobiografia e portati di peso all’interno del giallo. Intendiamoci, con questo non voglio assolutamente stroncarli. Sono, ripeto, assolutamente validi ed hanno dato l’indirizzo complessivo alla narrazione. Ma mi permetto di suggerire a Medina di rivederne proprio il linguaggio in funzione dell’opera che li contiene.

Il secondo fattore è il carattere di necessità. Ovvero quella persuasione, che il lettore fa sua, che quelle cose non possano essere raccontate che in quel modo. Che ogni altro linguaggio toglierebbe loro qualcosa. C’è un libro che amo molto, “Anni di cani” di Gunter Grass. Un libro ponderoso, di oltre 500 pagine, critto con uno stile puntuto, aspro: “La catena è già tirata: la voce del cane. La voce di Tulla. La sega circolare addenta una bora lunga cinque metri. La rettificatrice tace ancora. Adesso anche lei. Adesso la fresa. Ventisette passi di distanza fino alla porta del cortile”. Non saprei davvero come si possa raccontare in un modo diverso quella storia sulle contraddizioni della coscienza tedesca negli anni difficili del dopoguerra.

Altro sublime esempio, più vicino a noi ci viene da Camilleri, che è capace di inventarsi una lingua per calarci dentro alle atmosfere sicule del suo Montalbano “La chiamò al cellulare, ma arrisultò astutato. Anzi, per la precisione, la voci registrata disse che la pirsona chiamata non era raggiungibile. E consigliava di riprovare doppo tanticchia. Ma come si fa a raggiungere l'irraggiungibile? Solo provando e riprovando doppo tanticchia? Al solito, quelli dei telefoni tiravano a praticare l'assurdo. Dicevano, per esempio: il numero da lei chiamato è inesistente… Ma come si permettevano un'affermazione accussì? Tutti i nummari che uno arrinnisciva a pensari erano esistenti. Se veniva a fagliari un nummaro, tutto il mondo si sarebbe precipitato nel caos. Se ne rendevano conto quelli dei telefoni, sì o no?”.
Questa abile costruzione lessicale ci da l’impressione di essere entrati nella testa di Montalbano, di seguire i suoi ragionamenti nello stato naturale in cui si svolgono. Questo è il suo carattere di necessità.

Come possiamo facilmente capire non esiste una ricetta a cui attenersi per dare questo carattere di necessità al nostro linguaggio. Scrivere è un’arte anche per questo motivo.

mercoledì 18 maggio 2011

(sens) azioni [gianbarly]

Paolo Rigoni - s.t.
Mi rigiro lentamente il foglio fra le mani. E’ un comune foglio di carta, ma lo guardo come se non ne avessi mai visto uno in vita mia. Lo tasto a lungo, strofinandone la superficie fra pollice ed indice. La carta è un po’ più spessa del normale, forse è da 90 grammi. La superficie bianca non mostra imperfezioni, i lati sono diritti, squadrati, come dev’essere. Solo il lato superiore è sfrangiato. Passo il dito sulle piccole asperità seghettate, rimaste dopo che è stato staccato dal blocchetto. Osservo le parole che ci sono scritte sopra, ma senza cercare di leggerle. L’inchiostro ha tracciato una serie di piccoli arabeschi sopra il bianco assoluto della carta. Piego il foglio di lato per scoprire se le scritte siano in rilievo, ma non riesco a capirlo. Allora chiudo gli occhi e passo il dito sulla superficie cercando di trovare il punto dove stanno le parole.

sabato 7 maggio 2011

Racconti brevi (risposta a Nunzio)

Caro Nunzio,
alla mia impudenza nel commentare su Poesie&Racconti il tuo bel racconto Angela, tu hai risposto chiedendomi di aiutarti nel trovare cosa c’è che non va. Sfida impegnativa, cui però non voglio, per svariati motivi, sottrarmi. In primis, per l’affetto ed il rispetto che ho nei tuoi confronti, che ti sei conquistati sul campo con i tuoi eccellenti lavori. Poi, e non è cosa da poco, perché quelli che tu lamenti come tuoi difetti nello scrivere, sono anche i miei. Per cui, se riesco ad aiutare te, allo stesso tempo aiuto anche me stesso. Noi siamo dilettanti, non scrittori professionisti, ma questo non ci preclude la ricerca costante della perfezione.

Partiamo da un concetto su cui, credo, possiamo concordare: scopo di una narrazione di fatti inventati o romanzati è quello di trasmettere emozioni al lettore, attraverso il meccanismo del suo coinvolgimento nella lettura. Egli deve, in un certo senso, dimenticarsi si stare leggendo un testo scritto da altri, su cui fare un’analisi critica (come succede per esempio con i testi scientifici). Lo stile della scrittura lo deve portare ad uno stato di sospensione (più o meno profondo) che gli consenta di vedere come reali i fatti che gli vengono narrati, anche se assolutamente fantastici. Tutti noi abbiamo volato in groppa ad una palla di cannone assieme al barone di Munchausen!
Vargas Llosa, nel suo “Lettere ad un aspirante romanziere” dice che il racconto deve possedere il potere di persuasione. Esso serve ad “accorciare la distanza che divide la finzione dalla realtà e, cancellando quella frontiera, far vivere al lettore quella menzogna come se fosse la più imperitura delle verità, quella illusione la più consistente e solida descrizione del reale”.
Il riuscire in quest’opera di magia è compito dello scrittore. Per farlo egli deve dare credibilità (ripeto, anche se su un piano assolutamente fantastico) a ciò che avviene e poi fare attenzione a tutti quei “difetti” che possano essere di inciampo nella lettura, rompendo lo stato di straniamento del lettore. Parlo di difetti intendendo tutto ciò che non è voluto da chi scrive. E’ evidente che ci sono stili di scrittura volutamente difficili, poco scorrevoli ecc. che possono comunque (e magari proprio in base a ciò) raggiungere lo scopo della narrazione. Non di questo stiamo trattando.

Quali sono questi difetti? Sono, ad esempio, le frasi malamente legate le une alle altre. Sono i passaggi poco chiari, che richiedono uno sforzo eccessivo al lettore per riuscire a tenere il filo della narrazione. Sono le descrizioni incongruenti, sia tanto (dico che il protagonista è abbagliato dal sole in una scena ambientata di notte) che poco (un errore di ambientazione storica, piccolo ma sufficiente a mettere sull’allerta i sensi del lettore). Sono i salti temporali, di punto di vista, di ambientazione non correttamente calibrati.
In un romanzo oppure in un racconto di una certa lunghezza una modica quantità di tali errori non inficia il valore dell’opera. La dimensione, il respiro di questi lavori è in grado di assorbire e neutralizzare questi difetti. Ma il racconto breve non se li può permettere. La sua stessa esiguità di materia prima (parole e frasi) fa sì che essa debba essere utilizzata tutta al meglio. Ogni frase, ogni virgola deve andare al posto giusto, perché non ci sono spazi per recuperare.

Mi è capitato di riascoltare dopo lungo tempo la canzone “Incontro” di Guccini. Non so se ti piace il genere e se tu la conosca, ma la cito perché fa al nostro caso. Una canzone in effetti è un breve racconto. Riascoltandola mi ha colpito la perfezione stilistica letteraria con cui è costruita.


E correndo m’incontrò lungo le scale
quasi niente mi sembrò cambiato in lei …

L’incipit racchiude tutto quello che sto cercando di dirti: in due frasi l’autore pennella una scena di cui entriamo immediatamente a far parte. La casualità dell’incontro, la sorpresa, lo studiarsi, il lungo tempo passato. Con due sole parole “correndo” e “scale” Guccini disegna un intero scenario. Possiamo immaginarci che sia alla stazione, in una metropolitana o un altro luogo pubblico, in ogni caso il lettore ha davanti una scena compiuta. Le parole scivolano una dietro l’altra in maniera assolutamente naturale, quasi siano legate da un reciproco obbligo, se ce ne è una ci deve necessariamente essere anche l’altra. E questo nonostante ci sia fra la prima e la seconda un cambio di punto di vista. Prima è lei che lo incontra poi è lui che la osserva. Le due strofe successive chiudono un racconto che potrebbe già definirsi completo.

la tristezza poi ci avvolse come miele
per il tempo scivolato su noi due

Nota che c’è un secondo salto di punto di vista (lei-lui-loro) ma anche questo scivola via lievemente. L’arte dell’autore sta nell’uso sapiente di questi strumenti stilistici per rendere a pieno l’intensità del momento.

Veniamo ora a noi. Ciò che ti ho detto finora mi aiuta a comprendere finalmente cosa c’è nel racconto che non mi convince fino in fondo. Prima di proseguire debbo però avvertirti che ci stiamo inoltrando su di un terreno così impalpabile, così dominato dalle sensibilità e dai gusti personali che non sarebbe strano trovare opinioni assolutamente diverse dalla mia. Quindi ciò che scrivo è solo una opinione, per giunta neppure supportata da una qualche forma di autorità. Non me ne volere.
Ho riletto più volte il tuo racconto e dirò subito che più lo leggo e più mi piace. Ovvero ne capisco meglio la struttura, le intenzioni e quindi i lati positivi prendono decisamente il sopravvento su quelli che critico.
Ma, ahimè per te caro Nunzio, non credo che questo sia un complimento, perché mette in luce quel difetto che, nel racconto breve, diventa importante: viene richiesto uno sforzo di comprensione che, alla prima lettura, vanifica in parte il potere di coinvolgimento.
Mi spiego: il racconto può essere diviso in parti, separate fra loro da un salto temporale. I tempi dell’azione sono tre (il presente, un passato prossimo e un passato un po’ più prossimo). Tu hai usato l’intreccio di questi tre piani temporali per costruire la tua magia.
La sequenza è: passato prossimo – presente - passato prossimo – presente - passato prossimo – presente – passato prossimo –passato un po’ più prossimo – ecc..
In questo intreccio manca qualcosa, oppure è fuori posto, perché i salti non appaiono subito chiari (e necessari) come quelli di Guccini di cui sopra.
Poi, a mio avviso, c’è qualcosa di più rilevante quando passi al terzo tipo temporale, quello che ho chiamato passato un po’ più prossimo. Il tempo usato è l’imperfetto, lo stesso del passato prossimo, togliendo al lettore la possibilità di comprendere il salto. Inoltre c’è forse una carenza nel far capire il perché lui ha avuto bisogno di un’altra donna, una di carne ed ossa, perdendo così Angela. Questo toglie credibilità al racconto, quel potere di persuasione così necessario (come dice Vargas Llosa).

Questo è ciò che riesco a dirti. Non mi chiedere però quale sia la soluzione. Purtroppo non la so (altrimenti sarei uno scrittore) e, comunque, quella te la devi trovare da solo. Solo tu, che ne sei l’autore, che sei il padre dei protagonisti e che ne conosci più di chiunque altro l’animo, puoi provare ad intervenire. Se ci riuscirai con successo mi farai immensamente felice.