Il posto della mente è una piccola oasi letteraria dove possiamo andare quando abbiamo bisogno di qualcosa di diverso. Di leggere, o scrivere storie. Storie inventate, come quelle che io, da principiante, sottopongo al vostro giudizio, oppure storie vere, piccoli "frammenti di vita" che scivolerebbero immediatamente nell'oblio se qualcuno di noi non li raccogliesse.

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lunedì 2 gennaio 2012

Paco de luna - Terzo quadro 5 [gianbarly] Uno squillo nella notte

P. Picasso - Guernica (part.)
Quella notte la trascorsi in uno stato di profonda agitazione. La mia confusione mentale era al massimo, non riuscivo più a mettere in fila alcun pensiero. Mi sforzavo di ragionare ma ero sopraffatto continuamente  da emozioni contrastanti. Cercavo di pensare a Fimère, convinto di trovare dentro di me i morsi laceranti del mal d’amore, scontando in tal modo la mia condotta vigliacca e, quindi, arrivare ad una forma di riscatto, di sublimazione che potesse dare un qualche senso a ciò che era avvenuto.
In realtà, l’unica ferita che mi dava un vago senso di disagio, era dovuta all’aver mancato ad un dovere; ero più tormentato dall’aver agito in maniera difforme da quello che gli altri si aspettavano da me (e, primo fra tutti, Paolo che aveva sempre caldeggiato una mia relazione con Fimère, sostenendo che mi avrebbe fatto benissimo avere al fianco una ragazza determinata e pragmatica) che dal rifiuto di lei. Non soffrivo per amore di lei ma d’amor proprio e non volevo ammetterlo.

Il suono del telefono, poco prima delle sei, mi strappò bruscamente dall’impasse in cui ero caduto.
Era l’Antonia che con tono perentorio mi annunciò:
“C’è un’emergenza, vieni immediatamente!”
Pochi minuti dopo ero in redazione. Trovai gli altri, quelli che erano arrivati prima di me, affollati intorno al gabbiotto di Maria e di Luciano. Le facce erano stravolte, gli occhi rivolti ai due che stavano parlottando fra di loro all’interno del box. C’era un’aria surreale, una grande elettricità che contrastava con il silenzio assoluto che regnava nell’enorme stanzone. Non osai fare domande. Per ingannare l’attesa feci mentalmente l’appello. C’eravamo quasi tutti, tranne Paolo e pochi altri. Mi chiedevo invano che cosa fosse successo fino a che qualcuno non sussurrò
“Giuliana …”
In quel momento si udì il ticchettio caratteristico dei tacchi di Anna Maria, che stava arrivando con l’orecchio incollato al cellulare. Ci guardò tutti rapidamente a mo’ di saluto e poi disse brevemente, prima di rituffarsi nella conversazione
“E’ viva. Grave, ma viva”
Anche Maria e Luciano s’erano affacciati sulla porta del box per ascoltare le novità. Ognuno commentava quelle poche informazioni cercando di amplificarne il lato positivo. Sembrò per un attimo che non fosse successo nulla di serio. Ci pensò Anna Maria a riportarci alla realtà.
“Si va con la diretta, vero?” disse rivolta a Maria, dopo aver chiuso il cellulare. L’altra esitò un attimo prima di annuire.
“Bene, allora direi che tu, tu e … tu” indicando alcuni dei presenti “andate all’ospedale e cercate di avere maggiori notizie sulle sue condizioni”
Si volse rapidamente intorno e poi
“Voi due invece, con Franchino, andate sul posto dove l’hanno trovata. Di corsa, che alle 7 partiamo con la diretta!”
Maria la guardava inebetita, incapace di agire.  Di fronte ad una situazione che richiedeva prontezza di riflessi e lucidità, lei e Luciano avevano completamente perso la bussola. Anna Maria invece si era semplicemente riappropriata del ruolo che riteneva di meritare.
Istintivamente ci volgemmo tutti verso Maria, per spiarne la reazione. Lei deglutì con fatica per poi sussurrare
“E Luciano …?”
“Mi sembra ovvio, lui resta qui per la diretta”
Un lungo attimo di silenzio
“Beh, sì, mi sembra che vada bene, è ragionevole”
Poi, come rinfrancata dall’udire il suono della propria voce, Maria aggiunse
“Del resto, tu hai una certa esperienza, con le aggressioni”
E nell’intento di rincarare la dose
“Bene, ora vai al tuo posto e vedi di tirar giù un po’ di note sulla povera Giuliana. Oddio, non sarà facile, è una personcina così insulsa!”

In un baleno mi ritrovai in macchina con gli altri della mia squadra, ad aggeggi are con gli strumenti per la ripresa. Seppi da loro che giuliana era stata trovata in un vicolo, svenuta e piena di ferite.
I particolari li appresi dal ragazzo che l’aveva trovata. Era cinese e lavorava nel ristorante dello zio, sul lungofiume. Lo intervistammo nel vicolo sul retro, di fronte alle strisce gialle di plastica che la polizia aveva messo per delimitare la zona dove era stato trovato il corpo.
C’erano dei cassonetti, pieni fino all’orlo di spazzatura. Era lì che numerosi locali svuotavano gli avanzi della serata. Il ragazzo stava appunto portando i sacchi di rifiuti, quando l’aveva trovata. Era emozionato e nel parlare si fermava di continuo, incespicando nelle parole. Aveva qualche difficoltà con la nostra lingua e le telecamere lo mettevano a disagio. Inoltre, si capiva chiaramente che gli costava molta fatica raccontare di nuovo quello che aveva vissuto, come se avesse dovuto confessare di essere stato lui a picchiarla. Continuava a ripetere che c’era buio, che là in mezzo ai cassonetti è difficile distinguere qualsiasi cosa. Diceva che aveva già fatto un paio di viaggi, che i sacchi erano pesanti e che era difficile, molto difficile sollevarli fino all’orlo del cassonetto.
Si agitava molto, tormentandosi le mani, e cercava la nostra comprensione. Aveva gli occhi umidi, sembrava quasi supplicarci di smettere. Qualcuno gli appoggiò una mano sulla spalla e questo gesto sembrò rinfrancarlo. Con uno sforzo si girò verso il luogo recintato ed indicò lo spazio fra due contenitori.
Là nel mezzo, diceva, aveva intravisto un cumulo di spazzatura, non tanto grande, ma lui c’era salito sopra per rendersi più agevole il compito. Fece il gesto di alzare un sacco e di buttarlo all’interno di un recipiente molto alto, per farci capire che quei pochi centimetri che aveva guadagnato gli avevano permesso di fare molta meno fatica. Aveva fatto a quel modo per il primo sacco, poi era rientrato nel ristorante ed aveva preso il secondo, rifacendo gli stessi gesti. Il cumulo di spazzatura sotto di lui era soffice, aggiunse.
Al terzo sacco la sua piattaforma si era lamentata. Lui aveva fatto un salto, mollando tutto. Il sacco si era aperto rovesciando il suo contenuto tutto intorno. Allora lui era corso nel locale ed era subito tornato indietro con una pila. Aveva spazzato via i rifiuti con le mani, cercando di capire cosa ci fosse in quell’ammasso informe. E’ un cane, è un cane si ripeteva muovendo freneticamente la pila in tutte le direzioni. Fino a quando aveva visto le dita.

Ora piangeva a dirotto. Fra i singhiozzi ripeteva che lui avrebbe voluto tirarla fuori da là, portarla dentro al ristorante, aiutarla a rialzarsi ma che non riusciva a capire come fosse messa. Aveva provato un paio di volte ad afferrarla alla meno peggio ma ogni volta lei gemeva penosamente. Poi si era accorto che aveva entrambe le braccia spezzate.


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