P. Picasso - Guernica (part.) |
Quella notte la trascorsi in uno stato di profonda agitazione. La mia
confusione mentale era al massimo, non riuscivo più a mettere in fila alcun
pensiero. Mi sforzavo di ragionare ma ero sopraffatto continuamente da emozioni contrastanti. Cercavo di pensare
a Fimère, convinto di trovare dentro di me i morsi laceranti del mal d’amore, scontando
in tal modo la mia condotta vigliacca e, quindi, arrivare ad una forma di
riscatto, di sublimazione che potesse dare un qualche senso a ciò che era
avvenuto.
Il suono del telefono, poco prima delle sei, mi strappò bruscamente
dall’impasse in cui ero caduto.
Era l’Antonia che con tono perentorio mi annunciò:
“C’è un’emergenza, vieni immediatamente!”
Pochi minuti dopo ero in redazione. Trovai gli altri, quelli che erano
arrivati prima di me, affollati intorno al gabbiotto di Maria e di Luciano. Le
facce erano stravolte, gli occhi rivolti ai due che stavano parlottando fra di
loro all’interno del box. C’era un’aria surreale, una grande elettricità che
contrastava con il silenzio assoluto che regnava nell’enorme stanzone. Non osai
fare domande. Per ingannare l’attesa feci mentalmente l’appello. C’eravamo
quasi tutti, tranne Paolo e pochi altri. Mi chiedevo invano che cosa fosse
successo fino a che qualcuno non sussurrò
“Giuliana …”
In quel momento si udì il ticchettio caratteristico dei tacchi di Anna
Maria, che stava arrivando con l’orecchio incollato al cellulare. Ci guardò
tutti rapidamente a mo’ di saluto e poi disse brevemente, prima di rituffarsi
nella conversazione
“E’ viva. Grave, ma viva”
Anche Maria e Luciano s’erano affacciati sulla porta del box
per ascoltare le novità. Ognuno commentava quelle poche informazioni cercando
di amplificarne il lato positivo. Sembrò per un attimo che non fosse successo
nulla di serio. Ci pensò Anna Maria a riportarci alla realtà.
“Si va con la diretta, vero?” disse rivolta a Maria, dopo
aver chiuso il cellulare. L’altra esitò un attimo prima di annuire.
“Bene, allora direi che tu, tu e … tu” indicando alcuni dei
presenti “andate all’ospedale e cercate di avere maggiori notizie sulle sue
condizioni”
Si volse rapidamente intorno e poi
“Voi due invece, con Franchino, andate sul posto dove
l’hanno trovata. Di corsa, che alle 7 partiamo con la diretta!”
Maria la guardava inebetita, incapace di agire. Di fronte ad una situazione che richiedeva
prontezza di riflessi e lucidità, lei e Luciano avevano completamente perso la
bussola. Anna Maria invece si era semplicemente riappropriata del ruolo che
riteneva di meritare.
Istintivamente ci volgemmo tutti verso Maria, per spiarne la reazione. Lei
deglutì con fatica per poi sussurrare
“E Luciano …?”
“Mi sembra ovvio, lui resta qui per la diretta”
Un lungo attimo di silenzio
“Beh, sì, mi sembra che vada bene, è ragionevole”
Poi, come rinfrancata dall’udire il suono della propria voce, Maria
aggiunse
“Del resto, tu hai una certa esperienza, con le aggressioni”
E nell’intento di rincarare la dose
“Bene, ora vai al tuo posto e vedi di tirar giù un po’ di note sulla
povera Giuliana. Oddio, non sarà facile, è una personcina così insulsa!”
In un baleno mi ritrovai in macchina con gli altri della mia squadra, ad aggeggi
are con gli strumenti per la ripresa. Seppi da loro che giuliana era stata
trovata in un vicolo, svenuta e piena di ferite.
I particolari li appresi dal ragazzo che l’aveva trovata. Era cinese e
lavorava nel ristorante dello zio, sul lungofiume. Lo intervistammo nel vicolo
sul retro, di fronte alle strisce gialle di plastica che la polizia aveva messo
per delimitare la zona dove era stato trovato il corpo.
C’erano dei cassonetti, pieni fino all’orlo di spazzatura. Era lì che
numerosi locali svuotavano gli avanzi della serata. Il ragazzo stava appunto
portando i sacchi di rifiuti, quando l’aveva trovata. Era emozionato e nel
parlare si fermava di continuo, incespicando nelle parole. Aveva qualche
difficoltà con la nostra lingua e le telecamere lo mettevano a disagio. Inoltre,
si capiva chiaramente che gli costava molta fatica raccontare di nuovo quello
che aveva vissuto, come se avesse dovuto confessare di essere stato lui a
picchiarla. Continuava a ripetere che c’era buio, che là in mezzo ai cassonetti
è difficile distinguere qualsiasi cosa. Diceva che aveva già fatto un paio di
viaggi, che i sacchi erano pesanti e che era difficile, molto difficile
sollevarli fino all’orlo del cassonetto.
Si agitava molto, tormentandosi le mani, e cercava la nostra
comprensione. Aveva gli occhi umidi, sembrava quasi supplicarci di smettere. Qualcuno
gli appoggiò una mano sulla spalla e questo gesto sembrò rinfrancarlo. Con uno
sforzo si girò verso il luogo recintato ed indicò lo spazio fra due
contenitori.
Là nel mezzo, diceva, aveva intravisto un cumulo di spazzatura, non tanto
grande, ma lui c’era salito sopra per rendersi più agevole il compito. Fece il
gesto di alzare un sacco e di buttarlo all’interno di un recipiente molto alto,
per farci capire che quei pochi centimetri che aveva guadagnato gli avevano
permesso di fare molta meno fatica. Aveva fatto a quel modo per il primo sacco,
poi era rientrato nel ristorante ed aveva preso il secondo, rifacendo gli
stessi gesti. Il cumulo di spazzatura sotto di lui era soffice, aggiunse.
Al terzo sacco la sua piattaforma si era lamentata. Lui aveva fatto un
salto, mollando tutto. Il sacco si era aperto rovesciando il suo contenuto
tutto intorno. Allora lui era corso nel locale ed era subito tornato indietro
con una pila. Aveva spazzato via i rifiuti con le mani, cercando di capire cosa
ci fosse in quell’ammasso informe. E’ un cane, è un cane si ripeteva muovendo
freneticamente la pila in tutte le direzioni. Fino a quando aveva visto le
dita.
Ora piangeva a dirotto. Fra i singhiozzi
ripeteva che lui avrebbe voluto tirarla fuori da là, portarla dentro al
ristorante, aiutarla a rialzarsi ma che non riusciva a capire come fosse messa.
Aveva provato un paio di volte ad afferrarla alla meno peggio ma ogni volta lei
gemeva penosamente. Poi si era accorto che aveva entrambe le braccia spezzate.
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