Ci sono storie che è difficile raccontare. Perché sono tue e ti fanno soffrire. Perché le hai nascoste nel ripostiglio della tua mente, sapendo che prima o poi ci dovrai fare i conti. Come si fa a tirarle fuori e darle in pasto a chi vorrà leggerle, superando il pudore che impone di lasciarle coperte, al loro posto? Sinceramente non lo so. E chissà se è veramente pudore o semplice vigliaccheria. Sono qui, a battere controvoglia i tasti del computer, non sapendomi decidere se alla fine vorrò veramente pubblicare quello che sto scrivendo.
Questa storia, poi. Che se l’avessi inventata me ne vergognerei per l’insieme di cose che ha dentro; ma come si fa a pensare che sia credibile un racconto che mescola livide storie familiari con grandi eventi, sopra cui far aleggiare l’ombra cupa della morte prematura. “Come in un libro scritto male …” canta Guccini e mai come questa volta sento che ha ragione.
Una storia affondata nella memoria, ma che ogni tanto mi riaffiora, sbattutami in faccia da un suo simbolo. Molte storie sono, nella memoria di chi le ha vissute, legate ad un qualcosa. Una canzone, un odore, una luce particolare che di colpo ti fanno rivivere quegli attimi. Per questa storia il simbolo è un disegno che tutti abbiamo visto un po’ di tempo fa: il logo delle Olimpiadi invernali di Torino. Ricordate? Nel febbraio del 2006 non si parlava d’altro, tutto ha ruotato intorno a quell’evento. La televisione ci ha sommerso di trasmissioni sugli sport più bizzarri. Ci ha fatto persino appassionare al Curling, con i suoi colori e lo strano rito di spazzare il ghiaccio davanti alla boccia di pietra che scivola verso il suo obiettivo. Simbolo ufficiale di Torino 2006 è stato il disegno di una scia di stelle a quattro punte che sale verso l’alto torcendosi da destra verso sinistra in modo da formare la siluette della Mole Antonelliana.
Ogni tanto, a tradimento, me lo ritrovo davanti. A volte su una vecchia rivista, in uno spezzone dell’epoca o appiccicato come vetrofania sul lunotto di una marca di automobili. Quando lo vedo mi assale un malessere tenue che dalle viscere prende lo stomaco e sale piano fino ad incendiarmi la testa. E’ come una botola che si apre ed inizia a spandere i suoi odori e che mi costringe, per avere la forza di richiuderla, a rivivere da capo tutta la vicenda.
C’è uno dei miei zii, il più giovane, (mio padre aveva cinque fratelli) con cui io e la mia famiglia non ci siamo parlati per più di trent’anni.
Come è stato possibile? Ancora oggi me lo chiedo. Io che non litigo mai con nessuno, che non riesco a portare rancore per più di cinque minuti, che cerco la composizione di ogni piccolo dissidio, anche del più insignificante. Come è potuto accadere? Quale viluppo di emozioni, quali sentimenti ci hanno condotto a questo punto? I fatti non c’entrano, non sono importanti. Ognuno li può piegare a piacimento, per dimostrare di aver ragione. Non è questa la strada per uscirne. Ma non so se ho davvero voglia di uscirne, di chiuderla definitivamente. L’ho già fatto una volta – quella volta delle olimpiadi - illudendomi che fosse per sempre, ma non è servita a chiudere realmente i conti.
Eppure sarebbe importante capire come siamo arrivati a tanto. Nel tempo ho cercato una spiegazione del suo comportamento, del suo innalzare lo scontro fino alla rottura completa. Ho analizzato l’insieme inscindibile, che c’è in lui, di generosità e di volontà di soprafazione, che ne ha fatto il padre-padrone di tutti quelli che gli sono rimasti vicini, pur essendo il più piccolo dei fratelli. Del reciproco richiamarsi ai diritti sanciti dalla legge piuttosto che a quelli che sono scritti nel sangue, il voler privilegiare l’ordine oppure l’appartenenza. Con lui le cose sono così e da questo nascono i suoi comportamenti. Ma quale è stata la molla decisiva? E’ stato l’orgoglio ferito di chi ha messo in gioco tutto se stesso per gli altri o un sordido interesse che sperava di far leva sulla naturale riconoscenza dei deboli?
Sono andato a cercare i suoi motivi nella certezza di avere ragione. Mai, fino ad oggi, ho messo in dubbio questo pilastro della mia vita. Ma è davvero così? Davvero mi è bastato raggiungere il mio scopo, riprendermi quello che era mio? Non potevo, conoscendo chi avevo di fronte, agire in modo diverso? Cosa ho fatto veramente per evitare quello che è successo?
Su tutto questo poggiano trenta anni di buio. Giorni, mesi, anni passati ad ignorarsi. A farsi trasparenti quando ci si incontra per strada. A far finta di niente quando ci si ritrova forzatamente nella stessa stanza per una qualche celebrazione familiare, con gli altri parenti che si affrettano a rendere più gioiosa la festa per superare l’imbarazzo.
Tempo che passa inesorabilmente e che trasforma le colline in monti, i monti in catene montuose, barriere inaccessibili, definitive.
Poi il rancore diventa abitudine, una parte di te con cui convivere, un compagno di viaggio che non vorresti ma che ormai accetti come inevitabile. Di cui ti giustifichi con facilità. Non sono io che l’ho voluto. Fosse stato per me. Ho avuto solo quello che era mio. E fai la tua vita, pienamente, con allegria. Salvo qualche momento, sempre più raro, in cui ti chiedi se non sia il caso di provare a scalare quelle montagne. Ma poi ti basta dare uno sguardo a quelle cime inaccessibili per dirti che non è possibile. Come si fa!
Trent’anni è quasi una vita. Il succo di una vita. In questo tempo mi sono laureato, ho trovato lavoro e una moglie. Lui ha avuto i suoi figli, due, ed io i miei, due anche loro. Estranei che non si sono mai incontrati o, peggio, incontrandosi non si sono riconosciuti. Lutti e gioie familiari, da vivere facendo il conto di come fare a non incrociarsi.
Trent’anni così. Poi, quando questo fagotto è ormai sepolto tanto profondamente da essere quasi dimenticato, qualcuno, forse un parente, ti porta la notizia.
“Luca ha il cancro”
Ventotto anni, suo figlio più grande. Carcinoma anulare dell’intestino, una malattia da vecchi sbocciata chissà come in un corpo giovane, pieno di vita.
Istintivamente mi sale il pensiero che devo scalare la montagna, che è questo il momento. Come si fa, mi dico, ad alimentare l’astio per una cosa da nulla di fronte a un problema vero, incombente e devastante. Poi ti fai sopraffare dagli ostacoli. Cosa faccio, alzo il telefono e lo chiamo come se niente fosse? Mi presento a casa sua? No, meglio chiedere clandestinamente informazioni ad un parente compiacente. Seguire da lontano l’evolversi del male. L’altalena di speranze e delusioni, di battaglie vinte e di contrattacchi del nemico. E intanto cercare di sapere qualcosa di più di questo ragazzo, di questo estraneo. E’ un bel ragazzo, alto, che assomiglia in modo impressionante a mio figlio, mi dicono. Generoso ed attivo, qualità rare di questi tempi. Impegnato in attività per gli altri, con un gruppo di amici che gli vogliono un gran bene.
Un anno, scrutato da lontano. Io vivo a centocinquanta chilometri dal mio paese d’origine. Un anno di telefonate imbarazzate a questo o quel parente. Con l’anima dilaniata da sentimenti inconciliabili. Poi il male riprende inesorabilmente il suo cammino. Un ricovero a Milano per un ultimo tentativo. Da Milano, mi dice mia madre, lo spostano a Torino, in un ospedale più specializzato.
Di colpo ci vedo chiaro. Ecco il momento! Mentre gli altri non capiscono richiamo mia madre e le chiedo di farmi sapere in quale ospedale. Ho trovato. Ora vedo davanti a me il sentiero per scalare quelle montagne che mi hanno respinto per trent’anni.
Due giorni dopo sono a Torino, per un viaggio di lavoro. Devo andare in un ospedale, le Molinette, il più grande del Piemonte. Luca non è lì, è in un’altra struttura, dall’altra parte della città. Ma ora so cosa fare.
Finito il lavoro, nella luce livida di un pomeriggio invernale, entro nel luogo dove è ricoverato. Chiedo all’uomo della portineria, che interpella due infermiere.
“Ah sì, Luca” fa una delle due ed il viso le si illumina, come se parlasse di una persona cara “è al quarto piano”.
Mi avvio, chiedendomi come fa quel ragazzo a conquistare le persone con cui entra in contatto. Eppure tutti mi dicono la stessa cosa. Anche a Milano è successo così. Chi l’ha curato non lo trattava come un numero, come una pratica da sbrigare. La sua umanità ha conquistato tutti. Tranne me, che non l’ho conosciuto.
Dal quarto piano mi mandano al secondo, l’hanno appena trasferito. Scendo ed improvvisamente le mie gambe si fanno pesanti, rallento, quasi mi fermo. Mi chiedo cosa ci faccio qui, se davvero penso che basta che mi presenti per cancellare tutto, se invece non aggiungerò dolore a dolore. Penso che ho ancora l’occasione per andarmene. Posso dare un’occhiata al secondo piano – non c’è nessuno in giro – e poi scendere nell’atrio ed uscire. L’ho cercato ma non l’ho trovato, non è colpa mia.
Ma in fondo al corridoio deserto, seminascosta da una porta, vedo una figura familiare. E’ suo padre, mio zio, girato di spalle, seduto, o meglio, accasciato su una sedia.
Mi avvicino senza averlo deciso veramente, è come se il mio corpo rispondesse a degli stimoli che non sono io a dargli. Non penso a niente, la mia mente è bloccata, inerte. Lo chiamo con un filo di voce. Lui si gira lentamente, la sua faccia è una maschera tragica, la faccia di un padre che sta perdendo suo figlio. Lui che ha sempre fatto sfoggio di una grande forza, di una volontà risoluta, ora è un essere ripiegato, fragile. Mi guarda a lungo, intensamente. Nei suoi occhi passano sentimenti diversi. Poi, anche lui in un soffio amaro
“Ma sì, vieni qui” e mi indica la sedia di fronte a lui.
E così, nella luce spettrale di un corridoio deserto, anonimo come solo quelli di un ospedale sanno essere, ci mettiamo seduti uno di fronte all’altro, chinati in avanti con le teste che quasi si toccano, e cominciamo a parlare.
Parla soprattutto lui. Ha un grande bisogno di farlo. Mi racconta di Luca, di questo ragazzo che ha allevato e che gli stava dando tutte le soddisfazioni che un padre può chiedere. Mi ripete tutte le cose che ho già sentito da altri. Mi dice dell’andamento della malattia, di come il figlio l’abbia affrontata, dei momenti di sconforto e di rassegnazione, del suo adoperarsi perché i genitori accettassero il suo destino.
Mi vuol mettere a parte, lo sento, di tutto quello che mi sono perso in tanti anni.
Mi racconta del fratello di Luca, più piccolo di qualche anno. Si chiama Andrea, credo. Perché non lo so con esattezza. Mi sembra proprio, ma non ho il coraggio di chiederlo a lui, in quel momento. E dopo mi vergognavo di chiederlo agli altri parenti. In casa mia nessuno se lo ricorda con certezza. Eppure, nonostante i miei cugini siano tanti, li ho ben scolpiti nella mente, uno ad uno. Carlo, Piero, Angela, Gianpaolo, Giacomo, Roberto, Cristina, Carla, Andrea, Chiara. Tutti ben chiari, con le loro storie. Poi Luca e Andrea, forse.
Andrea studia al Politecnico di Milano. Si sta per laureare. Mio zio mi guarda come a dire
“Ecco il destino che mi tocca. Avrei cose di cui essere fiero, di quelle che danno il senso ad una vita ed invece mi si riprende tutto”.
Continua, con una voce piana da cui traspare ogni tanto l’antico orgoglio. Mi dice del professore con cui Andrea fa la tesi. Che ha messo su un gruppo di allievi, i migliori del suo corso, e con loro ha vinto il concorso per fare i loghi delle olimpiadi di Torino. Che è stato Andrea a disegnare quello più importante. Che il professore è stato orgoglioso di lui.
Mi dice di quando suo figlio è andato a Roma e sono stati ricevuti dal Presidente della Repubblica, in occasione della presentazione delle olimpiadi. Della foto in cui il ragazzo stringe la mano al Presidente.
Mi parla di quello che Andrea ha guadagnato da quella vicenda. Una cena in pizzeria con il professore. Che ovviamente ha firmato con il suo nome tutti i bozzetti vincenti. Cena a cui Andrea non è andato, perché ha preferito stare accanto al fratello morente.
Mi parla ancora di tante cose fino all’ora in cui devo proprio andare. Non mi consente di entrare nella camera di Luca.
Nei mesi successivi la cosa che mi resta più in testa è la storia del logo. Delle tre storie che hanno finito per intrecciarsi una all’altra, è quella a cui ritorno più spesso. Che le fissa tutte e tre in una trama unica. Come si fa a guardare con fiducia al futuro, se chi ci dovrebbe insegnare ci scippa i nostri meriti? Forse è normale, oggi, comportarsi così. Ma è per questo che mi chiedo se ci rendiamo conto della direzione in cui stiamo andando, quale mondo stiamo preparando se rompiamo il patto che ha legato le generazioni nei millenni. Il ciclo che fa sì che l’adulto trasmetta il suo sapere al giovane che si affaccia al lavoro, e con il sapere anche la fiducia in un avvenire migliore. Cosa dobbiamo aspettarci da quel gruppo di laureandi, bravi, preparati, chiamati a fare qualcosa di grande, ma costretti a soccombere, a restare nell’ombra fino a quando non saranno abbastanza stronzi e potenti da mandarci qualcun altro?
Con la morte di Luca abbiamo smesso di evitarci. Abbiamo messo da parte il rancore. Ma non mi sembra che la questione sia veramente finita. Semplicemente, la coltre del tempo ora è sufficientemente alta per camminarci sopra. Se lo facciamo con delicatezza, riusciamo a non romperla, a non sollevare nuovamente la polvere. Basta non chiederci troppo, non eccedere nel voler sistemare la nostra coscienza. Tanto, fra non molto – dieci, al massimo vent’anni – tutto sarà finito. Per sempre.
Ho letto d'un fiato la tua storia, con la mente incollata ai sentimenti, alle parole e ai percorsi di gente sconosciuta e lontana. Che, alla fine della lettura, non sembra più lontana né sconosciuta...
RispondiEliminaGrazie Albamarina delle tue belle parole.
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