Eccomi qui, sfinita, spiegazzata, mezza rotta, ridotta ad uno straccio, quasi alla fine della mia breve vita.
E pensare che tutto era cominciato così bene! Nei miei primi ricordi sono bella, frusciante, perfettamente stirata, con ancora l’odore della tipografia da cui sono uscita e sto viaggiando sopra un grande furgone diretto alle Poste Centrali assieme a tante altre come me.
Quanti discorsi in quel breve tragitto! Quelle più grandi che si vantano del loro valore, vedendosi già nell’alta società, attente a non confondersi con quelle false. Noi più piccole che parliamo insieme per farci coraggio. Ma tutte ansiose di viaggiare e di conoscere il mondo.
Il mio primo contatto col mondo ce l’ho quando la cassiera delle Poste mi tira fuori dalla mazzetta e mi consegna ad una signora anziana. Lei mi ripone con cura nella sua borsetta che sa di pulito e poi esce. Camminando brontola fra se e se, imprecando per la pensione sempre più misera, per le bollette da pagare, per il conto del macellaio, la rata del condominio e molto altro ancora. Incontra un’amica, con cui rifà pari pari tutti i discorsi che mi sono appena sorbita. Poi si dirige verso casa, con la crescente apprensione di essere derubata da qualche scippatore. “Ah, la città non è più quella di una volta!”
Però quando viene a trovarla la sua nipotina con il vestito a fiorellini apre il portafoglio, mi prende e mi consegna a lei. La bambina mi guarda a lungo poi bacia la nonna e corre via, tenendomi appallottolata nella mano. Lei è una bambina giudiziosa e sa che dovrebbe mettermi subito nella scatola del comodino dove tiene i risparmi. Ma è combattuta e continua ad aprire e stringere il pugno, indecisa. Addio stiratura! Alla fine si decide ed entra in una gelateria consegnandomi a un signore col cappellino bianco, che le da un gelato e una manciata di quegli odiosi dischetti di metallo che non valgono niente ma si credono chissà chi. Invece sono solo burini e fracassoni, tiè!
Il gelataio mi distende con cura e mi mette nel cassetto, dietro alle altre, in un posto a parte. Lui fa il gelato migliore di tutta la città. La gente viene anche da lontano per assaggiarli e gli fa mille complimenti. Lui ne è contento, perché il lavoro è tutta la sua vita. Non ha altro che quello e, fino ad ora, non ha cercato altro. Però da qualche tempo, sarà per certi dolori che non riesce a far andare via, si sente a volte un po’ solo. Soprattutto in certi momenti della giornata, dopo che sono passati i bambini per la merenda. Si sorprende a chiedersi come sarebbe stato, con dei bambini suoi. Con una famiglia intorno a rendergli meno pesanti quei dolori. Poi però entra una bambina col vestito a fiorellini e lui si dimentica delle su fantasie.
Verso sera arrivano due tipi che gli parlano gentilmente, ma che gentili non sono per davvero. Lui mi prende, assieme alle altre del mio scomparto, mi ficca rabbiosamente dentro una busta e gliela mostra. Loro pretendono anche un gelato. Lui glielo prepara, poi gli fa, serio serio “Per i gelati fanno 4 euro!”. Il più scuro dei due gli afferra la mano dove ha la busta e gliela serra fortissimo (ahimè, altre pieghe). La tiene per qualche secondo poi senza dire nulla mette la busta nella tasca della giacca e se ne va.
Con quei due faccio una lunga passeggiata, entrando ed uscendo di continuo dai negozi. Altre buste arrivano nella tasca, che sta proprio sotto l’ascella. Il sudore scende copioso verso di me. Meno male che sono ben riparata. I due parlottano fra loro. Il mio uomo ha un figlio con un grave problema, un handicap.
“Mia moglie si sta consumando dietro quel figliolo. Tutto il santo giorno a pulirlo, a imboccarlo, a correre in farmacia per le medicine. E quante ne servono”
“E’ per questo che fai questa vita di merda, sempre in giro a grattare la rogna a questi pidocchiosi?”
Lui lo guarda duro
“No. I quattrini fanno comodo, ma non è per questo. Li vedi quelli da cui andiamo? Glieli guardi gli occhi, quanta paura c’hanno dentro? Ecco, io quella paura non voglio avercela, mai. Preferisco essere io a vederla in loro”
Alla fine il mio uomo entra in un palazzo di uffici, sale in alto e ci deposita su una scrivania. L’aria condizionata è troppo alta e il sudore si gela sulla busta. Dopo un po’ arriva uno, ben vestito, profumato, con delle mani bianche e sottili. Ci conta delicatamente, annotando ogni cosa. Poi ci divide in tanti mazzetti, tutti diversi, che infila in altre buste su cui scrive qualcosa. Ma fa queste cose meccanicamente, senza metterci il cuore, come chi sta facendo un compito senza comprendere il perché. Pensa che tutte quelle cose sono stronzate.
“Prendi a questo – ma non troppo – poi quello che prendi lo dai a quest’altro, attento di qui, attento di là. Ma perché mio padre non si decide a lasciarmi fare da solo? Non sono grande abbastanza? Saprei io come fare. Altro che fare tutto di persona, che non ci si può fidare. Vorrei che gli venisse un colpo, che schiattasse stanotte, così me lo levo dalle palle una volta per tutte”.
E’ sera, nell’ufficio non c’è più nessuno. L’aria condizionata è spenta, meno male. Le buste nuove sono allineate sulla scrivania. Viene uno dei due di prima, quell’altro più magrolino e ci porta via.
Ricomincia una passeggiata, ma questa volta non in centro, in un quartiere buio e sporco. Entra in una casa, saluta e lascia una busta.
“Io per questo lo faccio. Perché porto un po’ di sollievo a queste famiglie che c’hanno gli uomini carcerati.”
Un altro portone, un’altra donna.
“Nunzia, come stanno i figlioli? Carmine quando esce?” e mi lascia lì.
Nunzia non si chiede da dove arrivano quei soldi, perché arrivano e chi glieli da. Lo sa ma preferisce non farsi domande. Li prende e basta, perché ne ha bisogno, perché deve allevare due figli e suo marito non c’è. Però ogni mese prende dalla busta una parte di soldi e va alle Poste a depositarli su di un libretto. Per non avere più bisogno della busta, un giorno. In quel mazzetto ci sono anch’io e già penso che mi tocca tornare al punto da cui sono partita, ma lungo la strada lei si ferma in una gioielleria a cambiare la pila all’orologio. La dentro si sente a disagio e parla con un filo di voce. La commessa la serve senza mostrare cortesia e quando è l’ora di pagare mi prende per un lembo, come se potessi sporcarla.
Due ragazze lì vicino stanno scegliendo un ciondolo. E’ un bell’oggetto, tutto d’oro con dei brillantini. Le ragazze ridono e fanno un sacco di commenti. Quella che lo sta comprando allunga alla commessa una banconota verde, di quelle più grandi che non avevo ancora mai visto. L’altra le chiede:
”Ma quanto ti danno i tuoi al mese?”
Lei si gira
“Vuoi dire quanto gli pelo?”
Poi alzando la voce
“Almeno il doppio di quanto guadagna questa qui” e ride.
La commessa irrigidisce le dita mentre conta il resto, come se volesse strapparci in mille pezzettini, ma il tono che usa con la cliente è cordiale come sempre.
Quando escono, l’amica riguarda ammirata l’oggetto.
“Ma che hai da guardare sempre? Ti piace così tanto? Invece a me non piace più”
“Ma come?”
“No, non mi piace più. Anzi, tieni, te lo regalo. Tanto so già quello che voglio”.
Lascia il gioiello nelle mani dell’altra e si dirige decisa verso una signora di mezza età, vestita alla maniera araba, che aspetta l’autobus. Parlotta un po’ con lei indicando lo scialle che le copre la testa. La donna scuote il capo più volte, ma poi con un gesto incerto si fa scivolare via il copricapo e glielo consegna.
Ora sono in una tasca del suo vestito. Qui ci sono tanti odori diversi, che mi danno un po’ alla testa. C’è un profumo troppo intenso e un fondo di spezie che si confondono con il suo sudore. Improvvisamente la donna inizia a tremare. Si guarda intorno, inquieta, e senza motivo si allontana dalla fermata camminando più svelta che può.
“Allah akbar! Allah akbar! Ma che ho fatto! Come ho potuto! Allah mi punirà, lo so. Eccomi a girare per strada a capo scoperto, come una svergognata. E spero di non incontrare nessuno. Ma Dio mi vede e la sua vendetta si abbatterà su di me. Oh me sventurata che ho barattato il mio onore per un pugno di soldi! E a nulla vale il fatto che solo io so quanto ci servono, un po’ di soldi in più. Una donna timorata non si vende!”
Ad un certo punto si ferma, posa le borse di plastica e comincia a travasarle una dentro l’altra finché riesce a svuotarne una. Allora se la mette in testa con un gesto secco, annodandola sotto la gola per i manici. Non si cura di chi si gira ad osservarla. Anzi, riprende il suo cammino senza più alcuna fretta.
La sua casa è molto piccola, piena di oggetti che non conosco. Lei lavora con lena in cucina. Io la seguo da dentro alla tasca e vengo investita da un forte odore di fritto. Ad un certo punto si ricorda di me, mi prende con le mani sporche di farina e di uovo e mi ficca in un piccolo borsello che sta nel cassetto della namleya, quella specie di credenza il cui nome vuol dire letteralmente “il posto delle formiche” (brrrr! Ma ci pensate a come mi sento qui dentro?).
Ora è notte e la casa è in silenzio, a parte il russare irregolare del padrone di casa. Sento però un leggero fruscio, chi è che mi prende al buio?
E’ Nagib, il figlio di mezzo, che sfila solo me dal borsello e mi ficca velocemente in tasca. Un lembo mi resta impigliato nell’apertura del borsello e, ahi! si strappa.
Il ragazzo esce facendo attenzione a non svegliare nessuno. In strada l’aria è fresca e lui cammina veloce con le mani in tasca.
“Fanculo!” pensa.
Un immigrato di seconda generazione come lui parla con i termini e l’inflessione dei suoi coetanei di qui.
“Di nuovo fanculo! A mamma che si nasconde quei quattro soldi che riesce a risparmiare, come se ci si potesse poi fare qualcosa. Sempre a trafficare in casa e fuori per far la spesa, ma capirai che gran lavoro! Fanculo anche a papà che è sempre a dire di come si deve comportare il buon mussulmano. Guardalo il buon figlio di Allah dove è arrivato! A rompersi la schiena ai mercati generali, trattato come uno schiavo, peggio di uno schiavo. A quarant’anni è buono solo per il cimitero! E fanculo anche ai miei fratelli che già sono su quella strada.”
Cammina sempre più veloce, in una direzione precisa.
“Ora mi ci vuole proprio una dose. Giusto per darmi la carica. E per domani ho già in mente una cosa…”
Raggiunge il pusher all’angolo di una piazza. Io cambio velocemente di mano.
Lo spacciatore è una persona precisa e mi mette per bene dentro un libretto dove ci sono già tante altre banconote.
“Quello là, il Romano, crede di essere un dio in terra, che tutti dobbiamo tremare davanti a lui. Ah ma io no, io ho altri progetti. Io non ci resto a fare l’ultimo della lista, a sperare che lui mi consenta di sopravvivere. Solo perché mi da la roba. Io voglio vivere la mia vita, come la decido io. Sono furbo io. Più furbo di lui, questo è certo. Mi serve ancora un po’ di tempo. Non più di un mese o due. Poi la vediamo chi è il più forte. Chi ha la roba più buona e chi ha la piazza più ricca. Altro che questi neri puzzolenti. Il giro buono ci vuole. Dove non mi devo sporcare le mani. Dove fare la grana, quella vera”.
E’ in quel momento che arriva quel tipo bassetto, con gli occhi attaccati e le sopracciglia che sembrano cespugli.
“Il Romano ti manda dire…”
Bum!
“che non gli piacciono i tipi come te…”
Bum!
“che pensano di poterlo prendere per il naso!”
Bum! Bum!
Si gira e se ne va, senza fretta.
Il mio uomo smette presto di rantolare mentre il sangue continua ad uscire da tutti quei buchi. Fra poco arriverà anche qui dove sono io e mi inzupperà tutta. Lo so, ormai il mio destino è di finire al macero.
Pazienza.
Però quel tipo che ha sparato poteva almeno avere un po’ più di stile, che diamine! Ma non ha mai visto Pulp Fiction? Che gli costava fare un po’ di scena? Vuoi mettere Samuel Jackson che ti snocciola un versetto della Bibbia prima di mandarti al creatore? Quelli sono killer! Almeno così potevo dire di aver fatto una fine da vera diva.
Ah, la classe! Se uno non ce l’ha…
GIANNI! Non ho parole, mi è piaciuto un casino anche se, in tutta sincerità, non è il mio genere; ma io sono un uomo di fantasia e come non apprezzare chi sa dare vita ad una banconota! La scena della donna araba è sublime, non potrebbe essere più vera! Certo questo lo può fare in Europa, in Iran si beccherebbe 99 frustate! Ma hai descritto la sua disperazione e il suo timore di Allah come nessun scrittore arabo saprebbe fare! Bello anche lo “status” del ragazzo Islamico di nova generazione, tra quei ragazzi c'è un conflitto tremendo tra chi vuole cambiare ed occidentalizzarsi e chi non, ma questa non è la sede per discuterne. Bravo comunque. In ogni vera cucina araba (dove le donne impastano con uova e fratina, che diamine è Mediterraneo) c'è una credenza che si chiama “namleya” e che letteralmente significa “posto delle formiche”, non commento! In Egitto, e penso solamente in Egitto, anzi ad Alessandria, si chiama altrettanto “fanous” che significa pure lampione, lanterna o fanale, probabilmente traducendo dal greco “fanari” che indica tutte quelle cose ma così, per omonimia, si chiama anche la credenza! Penso che il nome derivi dal fatto che gli sportelli erano bucherellati e facevano riflettete la luce al suo interno.
RispondiEliminaUn bacione a tutta la famiglia
Marius47
molto originale l'idea di questo punto di vista così particolare!!!
RispondiEliminaapprezzata molto la citazione filmica ;-P
continua così!
Giulia