Gli avvenimenti si mescolavano nella mia mente. Alla fine avevo fatto quella benedetta intervista. Paolo me l’aveva montata e, tirando un gran sospiro, avevo consegnato la cassetta a Maria. Il mercoledì era passato senza che succedesse nulla di particolare. Avevo sperato in un ringraziamento, una lode o almeno un commento non negativo. Mi dovetti accontentare di non avere critiche.Poi, quando già la questione si stava affievolendo dentro di me, ecco quel biglietto. Sentivo un bisogno disperato di stare un po’ solo. Quella sera uscii senza cercare il mio amico Paolo. Girai a lungo in macchina, nelle strade lungo il fiume, le più piene di vita. Guidavo senza una meta, per cercare di allentare la tensione che mi sentivo dentro e fare un po’ di ordine. Ma più mi sforzavo di analizzare la questione, più i pensieri mi turbinavano a caso nel cervello. Ceravo di risolvermi ad affrontare il problema e invece mi ritrovavo a pensare ad altro. Man mano che passavo davanti ai locali ricostruivo dentro di me la loro mappa. Paolo mi aveva insegnato, sera dopo sera, a riconoscerli, a capire le logiche sotterranee che li rendevano alla moda. Ad individuare quelli giusti per le diverse occasioni, per andarci con gli amici o per portarci una ragazza, quelli da evitare, quelli troppo su o troppo giù. Quelli per gay, o troppo in odore di malavita. Quelli in cui potevi tirare mattino o dove andare a cercare un brivido più intenso. Dove poterti rifugiare per tirarti via da una storia che ti faceva soffrire e dove invece cercarne una nuova.
La città ti metteva a disposizione la gamma completa delle possibilità, bastava saperle riconoscere ed offrirsi a loro senza remore. In questo Paolo era una guida insostituibile. Ti raccontava con semplicità la storia di ogni locale. Conosceva tutti e trattava ciascuno secondo un suo preciso canone.
Mentre ragionavo fra me e me di queste cose mi allontanavo dal centro, come alla ricerca di posti più defilati. Infine mi risolsi ad uscire dalla città. Guidai per un’ora abbondante per vialoni semideserti, lasciandomi portare dai pensieri che man mano mi si affacciavano alla mente. La cosa che mi aveva tormentato era ormai sepolta in qualche recesso del cervello e non facevo niente per risvegliarla.
Ad un certo punto mi venne in mente che, non lontano da dove mi trovavo, c’era un posto che avevo frequentato quando andavo a scuola. Era un bowling, dove andavamo spesso a dispetto della lontananza perché a quel tempo era gestito dal padre di un nostro compagno e potevamo fare qualche partita gratis. Mi venne la curiosità di rivederlo e, sotto sotto, forse la speranza di ritrovare qualche volto sbiadito nella memoria.
Parcheggiai la macchina ed entrai con un senso di lieve euforia, come quando la situazione prende una piega insperata.
Il locale era parecchio cambiato. Del resto ne avevo avuto notizie fresche, ovviamente da Paolo. Ne avevamo parlato per un suo curioso aspetto. Negli ultimi anni, dopo il cambio di gestione, aveva sviluppato, per così dire, una duplice personalità. Quasi un dottor Jekill e mister Hyde del divertimento. Aiutato, in questo, dalla conformazione degli ambienti. Da una parte, dove c’era un ampio salone con grandi vetrate, era il bowling di sempre, per lo più frequentato da compagnie di ragazzi e ragazzini numerose e vocianti. C’era poi un’ala più piccola e raccolta che partiva dal lato destro in fondo alle piste, dove era stato ricavato il posto per una decina di tavolini. Il bancone del bar era in mezzo, a separare i due ambienti. L’atmosfera intima ed il fatto di essere sufficientemente fuori mano vi aveva fatto affluire prima delle coppie in cerca di luoghi defilati, poi sempre di più quelli che andavano in cerca di incontri fugaci, senza troppe complicazioni. Era diventato il posto più in voga per chi, donne e uomini, era in cerca di avventure senza futuro. I proprietari del locale avevano incoraggiato questa squallida tendenza separando sempre di più le due parti. Ora il locale era una specie di Giano bifronte. Uno poteva entrare sul davanti, fare le sue partite, divertirsi tutta la sera senza minimamente accorgersi di quell’altro mondo che pulsava a pochi passi da lui.
Mi guardai intorno e – fortuna! – vidi un vecchio amico. Ci salutammo calorosamente e lui mi invitò ad unirmi alla sua compagnia. Giocavamo e ricordavamo i vecchi tempi. Aveva amici simpatici e finii per trascorrere una piacevole serata.
Quando loro uscirono andai al bancone del bar per farmi una bibita. Ero davvero sereno e volevo godermi quello stato ancora un po’. Mi appollaiai su uno sgabello cominciando a sorseggiare la mia bevanda. Il bancone era fatto a ferro di cavallo, in modo che il barista potesse agevolmente servire sia la parte del bowling sia i frequentatori dell’altro ambiente. Gli scaffali con le bottiglie dei liquori mi impedivano di vedere cosa succedeva dall’altra parte, tranne che per l’ultima parte del bancone. Io, in quel momento, non avevo la minima curiosità di quelle storie. Appartenevano ad un mondo che non riuscivo minimamente a capire, che rifiutavo e che mi dava una grande tristezza. E non avrei dato nessun importanza a quell’aspetto del locale se il mio sguardo non avesse colto, proprio nella porzione di bancone che potevo vedere, un volto familiare.
Proprio lì, in mezzo a due uomini, c’era Maria.
La prima cosa che mi colpì fu la sua espressione. Era trasformata. In ufficio aveva sempre un’aria livida, sfinita, che tradiva un eterno rancore. Di fatto non avevo mai pensato a lei come ad un essere umano. La vedevo ora per la prima volta, lo sguardo acceso, i movimenti a scatto, un po’ accelerati, la risata forte. Era una donna non più giovanissima, con le sue storie e chissà quali aspirazioni, sospesa in quell’età in bilico fra ciò che è stato e quello che non sarà più. Chiacchierava fittamente con i due uomini, con ampi gesti delle mani. Ogni tanto buttava la testa all’indietro, prorompendo in una sonora risata. I due le stavano addosso come cani in calore. Ad un certo punto quello più anziano le mise una mano sul seno. Lei fece un debole segno di resistenza, ma poi lo lasciò fare. Continuò a parlare come se niente fosse. Dopo un po’ avvicinò la bocca all’orecchio dell’altro uomo per dirgli qualcosa. La sua mano sparì lentamente sotto il bancone mentre lo fissava con aria divertita. L’espressione dell’uomo cambiò di colpo. Stettero così per qualche istante poi cominciarono a ridere guardandosi negli occhi. Maria allora si girò verso quello che le aveva palpato il seno e di nuovo affondò la mano verso il basso, ripetendo lo stesso copione. L’uomo era a disagio e si dimenava sullo sgabello. Non guardava verso Maria, ma dava fugaci occhiate intorno. Lei, divertita dalla sua reazione, prolungava la sua azione, accentuano apposta i movimenti della mano e sussurrando continuamente all’orecchio dell’uomo. Poi si rizzò di colpo più che poteva, in modo da sovrastare i due e alzò le braccia davanti al viso, roteando le mani e gli occhi, come a mettere in fila una serie di elementi. Fece alcune considerazioni ad alta voce, aumentando l’imbarazzo del secondo uomo, anche se nessuno poteva sentirli. Ammiccò più volte, ridendo a mezza voce. Alla fine puntò gli indici paralleli verso quello alla sua destra. Lui annuì soddisfatto. Lei diede un buffetto all’altro, che alzò le spalle. I tre si alzarono allontanandosi da me. Maria uscì dal locale tirandosi dietro la sua preda.
Poco dopo uscii anch’io, con la testa in fiamme. In bocca avevo il sapore metallico della birra a pressione. Ciò che avevo visto mi lavorava dentro, facendomi star male. Non riuscivo proprio a vedere la cosa con distacco. Eppure non avevo mai provato per Maria alcun interesse – non dico a livello affettivo – ma neppure con cose come simpatia o antipatia. L’avevo semplicemente catalogata fra le piccole noie che ti possono capitare. Non mi consideravo neppure un bacchettone; ero, anzi, incline ad accettare tutte le forme di espressione delle tendenze sessuali, senza alcuna preclusione. No, non era quello il punto. In realtà, non era tanto il disgusto per quella scena, quanto la mia totale incapacità di afferrarne il senso. Dio mio, Maria non aveva bisogno di quello! Non poteva averne bisogno! Mi tormentai per buona parte della notte, incapace di archiviare la cosa fra le evenienze più o meno strane della vita. Finii per addormentarmi sfinito.
La città ti metteva a disposizione la gamma completa delle possibilità, bastava saperle riconoscere ed offrirsi a loro senza remore. In questo Paolo era una guida insostituibile. Ti raccontava con semplicità la storia di ogni locale. Conosceva tutti e trattava ciascuno secondo un suo preciso canone.
Mentre ragionavo fra me e me di queste cose mi allontanavo dal centro, come alla ricerca di posti più defilati. Infine mi risolsi ad uscire dalla città. Guidai per un’ora abbondante per vialoni semideserti, lasciandomi portare dai pensieri che man mano mi si affacciavano alla mente. La cosa che mi aveva tormentato era ormai sepolta in qualche recesso del cervello e non facevo niente per risvegliarla.
Ad un certo punto mi venne in mente che, non lontano da dove mi trovavo, c’era un posto che avevo frequentato quando andavo a scuola. Era un bowling, dove andavamo spesso a dispetto della lontananza perché a quel tempo era gestito dal padre di un nostro compagno e potevamo fare qualche partita gratis. Mi venne la curiosità di rivederlo e, sotto sotto, forse la speranza di ritrovare qualche volto sbiadito nella memoria.
Parcheggiai la macchina ed entrai con un senso di lieve euforia, come quando la situazione prende una piega insperata.
Il locale era parecchio cambiato. Del resto ne avevo avuto notizie fresche, ovviamente da Paolo. Ne avevamo parlato per un suo curioso aspetto. Negli ultimi anni, dopo il cambio di gestione, aveva sviluppato, per così dire, una duplice personalità. Quasi un dottor Jekill e mister Hyde del divertimento. Aiutato, in questo, dalla conformazione degli ambienti. Da una parte, dove c’era un ampio salone con grandi vetrate, era il bowling di sempre, per lo più frequentato da compagnie di ragazzi e ragazzini numerose e vocianti. C’era poi un’ala più piccola e raccolta che partiva dal lato destro in fondo alle piste, dove era stato ricavato il posto per una decina di tavolini. Il bancone del bar era in mezzo, a separare i due ambienti. L’atmosfera intima ed il fatto di essere sufficientemente fuori mano vi aveva fatto affluire prima delle coppie in cerca di luoghi defilati, poi sempre di più quelli che andavano in cerca di incontri fugaci, senza troppe complicazioni. Era diventato il posto più in voga per chi, donne e uomini, era in cerca di avventure senza futuro. I proprietari del locale avevano incoraggiato questa squallida tendenza separando sempre di più le due parti. Ora il locale era una specie di Giano bifronte. Uno poteva entrare sul davanti, fare le sue partite, divertirsi tutta la sera senza minimamente accorgersi di quell’altro mondo che pulsava a pochi passi da lui.
Mi guardai intorno e – fortuna! – vidi un vecchio amico. Ci salutammo calorosamente e lui mi invitò ad unirmi alla sua compagnia. Giocavamo e ricordavamo i vecchi tempi. Aveva amici simpatici e finii per trascorrere una piacevole serata.
Quando loro uscirono andai al bancone del bar per farmi una bibita. Ero davvero sereno e volevo godermi quello stato ancora un po’. Mi appollaiai su uno sgabello cominciando a sorseggiare la mia bevanda. Il bancone era fatto a ferro di cavallo, in modo che il barista potesse agevolmente servire sia la parte del bowling sia i frequentatori dell’altro ambiente. Gli scaffali con le bottiglie dei liquori mi impedivano di vedere cosa succedeva dall’altra parte, tranne che per l’ultima parte del bancone. Io, in quel momento, non avevo la minima curiosità di quelle storie. Appartenevano ad un mondo che non riuscivo minimamente a capire, che rifiutavo e che mi dava una grande tristezza. E non avrei dato nessun importanza a quell’aspetto del locale se il mio sguardo non avesse colto, proprio nella porzione di bancone che potevo vedere, un volto familiare.
Proprio lì, in mezzo a due uomini, c’era Maria.
La prima cosa che mi colpì fu la sua espressione. Era trasformata. In ufficio aveva sempre un’aria livida, sfinita, che tradiva un eterno rancore. Di fatto non avevo mai pensato a lei come ad un essere umano. La vedevo ora per la prima volta, lo sguardo acceso, i movimenti a scatto, un po’ accelerati, la risata forte. Era una donna non più giovanissima, con le sue storie e chissà quali aspirazioni, sospesa in quell’età in bilico fra ciò che è stato e quello che non sarà più. Chiacchierava fittamente con i due uomini, con ampi gesti delle mani. Ogni tanto buttava la testa all’indietro, prorompendo in una sonora risata. I due le stavano addosso come cani in calore. Ad un certo punto quello più anziano le mise una mano sul seno. Lei fece un debole segno di resistenza, ma poi lo lasciò fare. Continuò a parlare come se niente fosse. Dopo un po’ avvicinò la bocca all’orecchio dell’altro uomo per dirgli qualcosa. La sua mano sparì lentamente sotto il bancone mentre lo fissava con aria divertita. L’espressione dell’uomo cambiò di colpo. Stettero così per qualche istante poi cominciarono a ridere guardandosi negli occhi. Maria allora si girò verso quello che le aveva palpato il seno e di nuovo affondò la mano verso il basso, ripetendo lo stesso copione. L’uomo era a disagio e si dimenava sullo sgabello. Non guardava verso Maria, ma dava fugaci occhiate intorno. Lei, divertita dalla sua reazione, prolungava la sua azione, accentuano apposta i movimenti della mano e sussurrando continuamente all’orecchio dell’uomo. Poi si rizzò di colpo più che poteva, in modo da sovrastare i due e alzò le braccia davanti al viso, roteando le mani e gli occhi, come a mettere in fila una serie di elementi. Fece alcune considerazioni ad alta voce, aumentando l’imbarazzo del secondo uomo, anche se nessuno poteva sentirli. Ammiccò più volte, ridendo a mezza voce. Alla fine puntò gli indici paralleli verso quello alla sua destra. Lui annuì soddisfatto. Lei diede un buffetto all’altro, che alzò le spalle. I tre si alzarono allontanandosi da me. Maria uscì dal locale tirandosi dietro la sua preda.
Poco dopo uscii anch’io, con la testa in fiamme. In bocca avevo il sapore metallico della birra a pressione. Ciò che avevo visto mi lavorava dentro, facendomi star male. Non riuscivo proprio a vedere la cosa con distacco. Eppure non avevo mai provato per Maria alcun interesse – non dico a livello affettivo – ma neppure con cose come simpatia o antipatia. L’avevo semplicemente catalogata fra le piccole noie che ti possono capitare. Non mi consideravo neppure un bacchettone; ero, anzi, incline ad accettare tutte le forme di espressione delle tendenze sessuali, senza alcuna preclusione. No, non era quello il punto. In realtà, non era tanto il disgusto per quella scena, quanto la mia totale incapacità di afferrarne il senso. Dio mio, Maria non aveva bisogno di quello! Non poteva averne bisogno! Mi tormentai per buona parte della notte, incapace di archiviare la cosa fra le evenienze più o meno strane della vita. Finii per addormentarmi sfinito.
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