Pochi giorni dopo l'intervista a Paco de Luna, trovai un biglietto sulla mia scrivania.
A dire il vero non è che la scrivania fosse proprio mia.
A dire il vero non è che la scrivania fosse proprio mia.
La condividevo con il responsabile delle sponsorizzazioni, o meglio, ne ero un ospite appena tollerato, perché Riccardo la considerava di sua esclusiva proprietà. Ed era sottinteso che io, quando lui arrivava, dovevo immediatamente filare via. Del resto ero l'ultimo arrivato e in più il mio incarico di giornalista-tuttofare mi teneva lontano dall'ufficio per la maggior parte del tempo. Così, quando lui compariva sulla porta, trovavo sempre una buona scusa per uscire. In questo modo evitavo di impegnarmi in una discussione che non volevo assolutamente avere.
Quella sistemazione me l’aveva trovata l’Antonia, il giorno in cui ero stato assunto. Negli uffici regnava una grande confusione, un clima d’emergenza. C’era stata il giorno prima una inondazione nei quartieri a sud del fiume e TeleCittà era impegnata allo spasimo per coprire ogni aspetto dell’avvenimento. La direzione aveva deciso di arruolare chiunque che, con un minimo di capacità, si fosse presentato. Il mio amico Paolo, che lavorava lì da tempo, mi ha immediatamente telefonato, intimandomi di venire.
Meno di due ore dopo ero assunto e, miracolo!, sono diventato giornalista. Poi, grazie alla mia totale disponibilità ho avuto in dono anche la qualifica di tuttofare. E quindi, a tutti gli effetti, sono diventato giornalista-tuttofare.
L’Antonia, finito il colloquio, mi ha liquidato in pochi minuti, indicandomi una scrivania e dicendo
“ Ecco, per ora sistemati qui. E’ la scrivania di Riccardo, vi dovrete stringere un po’”. E mi ha piantato lì.
Riccardo non c’era, ma in compenso gli altri intorno avevano capito al volo la situazione. Nel giro di dieci minuti sono stato sommerso di richieste. Tutti avevano qualcosa da farmi fare. Non mi era ancora chiaro come avrei dovuto comportarmi per fare il giornalista. Ma la qualifica di tuttofare mi risultò subito nitidissima. Da quel momento c’era sempre qualcuno che aveva bisogno di consegnare un RVM o di andare a prendere un ospite. Mi adattai di buon grado alla situazione che, in fondo, non mi dispiaceva. Mi consentiva di imparare e di conoscere le persone.
La calligrafia sul biglietto era quella di Riccardo. Lo vedo sbuffare e sollevare gli occhi al cielo:
“Un messaggio per quella nullità. Oddiooo!” avrà detto rivolto verso Giuliana, riservandole una delle sue faccine da bamboccio stupito. E poi:
“Ma allora anche il nulla esiste!”
Giuliana avrà riso di gusto, appagata dell’attenzione. Poi si sarà aggiustata gli occhiali, ricordandosi improvvisamente di dover portare un fascicolo in un altro ufficio.
Riccardo era l’unico in grado di farla sorridere. Non era una cattiva ragazza, ma parecchio scontrosa, sì. Normalmente lavorava a testa bassa, con l’aria di chi deve portare un peso troppo grande. Vestiva sempre di scuro, blu o grigio, con gonne che le davano a metà polpaccio e dei golfini da poco, con sotto una camicetta bianca. A volte sembrava guardarmi attraverso, come se non fossi nel suo campo visivo. Poteva stare intere giornate senza rivolgerti la parola. Da alcuni commenti colti qua e là avevo intuito che doveva sbattersi parecchio per rimanere a galla. Se n’era andata dalla famiglia perché si sentiva soffocata ed ora aveva una storia con uno smidollato arrogante che le rendeva le cose parecchio difficili. Aveva un disperato bisogno di lavorare e, alla fine, le ore che passava alla televisione erano le migliori della sua giornata. Qualcuno la compativa, ma i più la ignoravano.
Riccardo si divertiva di tanto in tanto a stuzzicarla. Non che gli interessasse, solo così, per gioco. Non era il tipo da curarsi degli effetti delle sue azioni. Aveva dei modi da sbruffone e dava sempre alle parole una cadenza un po’ teatrale. Quando arrivava in ufficio riusciva subito a catalizzare l’attenzione di tutti. Qualunque fosse il clima della redazione, lui lo spazzava via con i suo passo ritmato che faceva vibrare il pavimento. Rumoreggiava continuamente con la bocca, alternando mozziconi di frasi rivolte a questo e a quello con sue profonde riflessioni personali. Anche quando era da solo davanti al computer o al telefono giocava continuamente con qualunque cosa avesse a tiro, producendo una cacofonia di rumori. La sua presenza si materializzava nell’aria attraverso una sequenza ininterrotta di onde sonore. Ti faceva continuamente partecipe delle sue riflessioni, incalzandoti a commentarle con lui. Non era possibile sottrarsi a quel vortice. Ti tirava dentro ai suoi discorsi, costringendoti ad interrompere il tuo lavoro. Sembrava che tutto fosse sommamente importante per lui, in particolare quello che stava facendo o che aveva in mente in quel momento. Poi, così come ti aveva catturato, ti mollava. Passava a qualche altra attività, che doveva premergli assai, e si dimenticava di te. Aveva un modo tutto suo di lavorare e, quando c’era una riunione, buttava lì i suoi giudizi, taglienti come coltelli.
Questo suo modo di fare non lo rendeva simpatico a molti, ma bisogna dire che raramente si sbagliava.
Per mia fortuna quel giorno non c’era. Avevo quindi a disposizione la scrivania e la tranquillità per mettere a posto le mie cose. Ed un problema.
Continuavo a rigirarmi per le mani quel biglietto, senza riuscire a capire. Era di Lourdes, la donna di Paco de Luna, il tizio che avevo intervistato. Mi chiedeva di incontrarla in un bar, poco distante dalla loro casa. Ero perplesso. Il motivo non era specificato e non mi era chiaro perché volesse vedermi. A dire il vero non riuscivo nemmeno ad avere una visione nitida di lei. Si chiamava Lourdes, questo lo ricordavo benissimo. Era lei che mi aveva aperto, il giorno dell'intervista.
"Buongiorno, io sono Lourdes. Piacere di conoscerla" aveva detto facendomi entrare.
Poi, mi aveva accompagnato subito da Paco e se ne era stata in disparte tutto il tempo. Io ero troppo assorbito dal mio compito per trattenere qualcosa di lei nella mia mente.
Quella sistemazione me l’aveva trovata l’Antonia, il giorno in cui ero stato assunto. Negli uffici regnava una grande confusione, un clima d’emergenza. C’era stata il giorno prima una inondazione nei quartieri a sud del fiume e TeleCittà era impegnata allo spasimo per coprire ogni aspetto dell’avvenimento. La direzione aveva deciso di arruolare chiunque che, con un minimo di capacità, si fosse presentato. Il mio amico Paolo, che lavorava lì da tempo, mi ha immediatamente telefonato, intimandomi di venire.
Meno di due ore dopo ero assunto e, miracolo!, sono diventato giornalista. Poi, grazie alla mia totale disponibilità ho avuto in dono anche la qualifica di tuttofare. E quindi, a tutti gli effetti, sono diventato giornalista-tuttofare.
L’Antonia, finito il colloquio, mi ha liquidato in pochi minuti, indicandomi una scrivania e dicendo
“ Ecco, per ora sistemati qui. E’ la scrivania di Riccardo, vi dovrete stringere un po’”. E mi ha piantato lì.
Riccardo non c’era, ma in compenso gli altri intorno avevano capito al volo la situazione. Nel giro di dieci minuti sono stato sommerso di richieste. Tutti avevano qualcosa da farmi fare. Non mi era ancora chiaro come avrei dovuto comportarmi per fare il giornalista. Ma la qualifica di tuttofare mi risultò subito nitidissima. Da quel momento c’era sempre qualcuno che aveva bisogno di consegnare un RVM o di andare a prendere un ospite. Mi adattai di buon grado alla situazione che, in fondo, non mi dispiaceva. Mi consentiva di imparare e di conoscere le persone.
La calligrafia sul biglietto era quella di Riccardo. Lo vedo sbuffare e sollevare gli occhi al cielo:
“Un messaggio per quella nullità. Oddiooo!” avrà detto rivolto verso Giuliana, riservandole una delle sue faccine da bamboccio stupito. E poi:
“Ma allora anche il nulla esiste!”
Giuliana avrà riso di gusto, appagata dell’attenzione. Poi si sarà aggiustata gli occhiali, ricordandosi improvvisamente di dover portare un fascicolo in un altro ufficio.
Riccardo era l’unico in grado di farla sorridere. Non era una cattiva ragazza, ma parecchio scontrosa, sì. Normalmente lavorava a testa bassa, con l’aria di chi deve portare un peso troppo grande. Vestiva sempre di scuro, blu o grigio, con gonne che le davano a metà polpaccio e dei golfini da poco, con sotto una camicetta bianca. A volte sembrava guardarmi attraverso, come se non fossi nel suo campo visivo. Poteva stare intere giornate senza rivolgerti la parola. Da alcuni commenti colti qua e là avevo intuito che doveva sbattersi parecchio per rimanere a galla. Se n’era andata dalla famiglia perché si sentiva soffocata ed ora aveva una storia con uno smidollato arrogante che le rendeva le cose parecchio difficili. Aveva un disperato bisogno di lavorare e, alla fine, le ore che passava alla televisione erano le migliori della sua giornata. Qualcuno la compativa, ma i più la ignoravano.
Riccardo si divertiva di tanto in tanto a stuzzicarla. Non che gli interessasse, solo così, per gioco. Non era il tipo da curarsi degli effetti delle sue azioni. Aveva dei modi da sbruffone e dava sempre alle parole una cadenza un po’ teatrale. Quando arrivava in ufficio riusciva subito a catalizzare l’attenzione di tutti. Qualunque fosse il clima della redazione, lui lo spazzava via con i suo passo ritmato che faceva vibrare il pavimento. Rumoreggiava continuamente con la bocca, alternando mozziconi di frasi rivolte a questo e a quello con sue profonde riflessioni personali. Anche quando era da solo davanti al computer o al telefono giocava continuamente con qualunque cosa avesse a tiro, producendo una cacofonia di rumori. La sua presenza si materializzava nell’aria attraverso una sequenza ininterrotta di onde sonore. Ti faceva continuamente partecipe delle sue riflessioni, incalzandoti a commentarle con lui. Non era possibile sottrarsi a quel vortice. Ti tirava dentro ai suoi discorsi, costringendoti ad interrompere il tuo lavoro. Sembrava che tutto fosse sommamente importante per lui, in particolare quello che stava facendo o che aveva in mente in quel momento. Poi, così come ti aveva catturato, ti mollava. Passava a qualche altra attività, che doveva premergli assai, e si dimenticava di te. Aveva un modo tutto suo di lavorare e, quando c’era una riunione, buttava lì i suoi giudizi, taglienti come coltelli.
Questo suo modo di fare non lo rendeva simpatico a molti, ma bisogna dire che raramente si sbagliava.
Per mia fortuna quel giorno non c’era. Avevo quindi a disposizione la scrivania e la tranquillità per mettere a posto le mie cose. Ed un problema.
Continuavo a rigirarmi per le mani quel biglietto, senza riuscire a capire. Era di Lourdes, la donna di Paco de Luna, il tizio che avevo intervistato. Mi chiedeva di incontrarla in un bar, poco distante dalla loro casa. Ero perplesso. Il motivo non era specificato e non mi era chiaro perché volesse vedermi. A dire il vero non riuscivo nemmeno ad avere una visione nitida di lei. Si chiamava Lourdes, questo lo ricordavo benissimo. Era lei che mi aveva aperto, il giorno dell'intervista.
"Buongiorno, io sono Lourdes. Piacere di conoscerla" aveva detto facendomi entrare.
Poi, mi aveva accompagnato subito da Paco e se ne era stata in disparte tutto il tempo. Io ero troppo assorbito dal mio compito per trattenere qualcosa di lei nella mia mente.
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