A. Ligabue - Autoritratto |
Corrado era il nostro tecnico delle luci. Credo che fosse alla tele fin
dal primo giorno; in ogni caso era una delle figure storiche dell’emittente. Di
corporatura massiccia ed impedito da un ventre decisamente espanso, riusciva
tuttavia a muoversi con una certa grazia fra cavi e tralicci. Vestiva
invariabilmente una camicia bianca ed un paio di jeans, con sopra una giacca
blu. Il tutto gli dava un aspetto serio cui faceva contrasto la lunga
capigliatura brizzolata che lui teneva sempre raccolta a coda di cavallo.
Mi aveva bloccato mentre mi accingevo ad entrare in ufficio, proponendomi
di prendere un caffè insieme. Non avevo saputo dirgli di no.
“Franchino, io ho cinquantadue anni” mi disse guardandomi intensamente
con gli occhi lucidi.
Io finsi di essere intento a sorbire il caffè, ma in realtà la mia testa
era da tutt’altra parte.
“Si vede che tu non sai neppure cosa vuol dire …”
E intanto scuoteva la testa con aria desolata.
Avevo preso per mano Lourdes e l’avevo letteralmente catapultata fuori
dal locale. Non avrei potuto sopportare di stare un solo altro istante là dentro.
Di colpo mi era presa la smania di farle vedere la città. Il suo volto serio,
quando ero arrivato, mi aveva rivelato quanto lei avesse bisogno di allegria,
di aria fresca e frizzante, di parole che non fossero sempre e solo incentrate
su Paco. Per Dio! Era una persona anche lei, aveva le sue emozioni, forse anche
delle ambizioni che riguardassero solo lei. Non poteva vivere tutta una vita in
funzione di quell’uomo.
“Sei giovane, tu. Non puoi capire fino in fondo, ma io ho paura!”
Il tono di Corrado mi riportò al presente. Lo guardai con aria perplessa.
“Sì, Franchino, io ho paura. Quella maledetta lista! Lo so che ci sono
anch’io!”
“Ma no, a te chi vuoi che ti licenzi?”
“No, magari fosse così! Non vedi che non c’è più spazio per quello che
faccio? Prima la tele produceva molti dei suoi programmi, poi ad uno ad uno li
ha dismessi, riempiendo i palinsesti di robaccia presa in giro per il mondo.
Ora ho sentito dire che anche le televendite non le faremo più noi. Sai cosa
significa?”
Lo sapevo, Sì che lo sapevo ma non me ne fregava niente, in quel momento.
Avevo in mente solo la lunga passeggiata con Lourdes, alla scoperta degli
angoli più nascosti della città. Mi ero improvvisato cicerone, scoprendo di
sapere molte più cose sulla mia città di quelle che avrei potuto immaginare.
Parlavo veloce, infarcendo il discorso con aneddoti ed osservazioni caustiche
sui modi di essere dei vari tipi di persone. Lourdes si era mollemente
appoggiata al mio braccio e assecondava il mio entusiasmo, interessandosi ad
ogni particolare come se fosse realmente una straniera appena giunta in città.
Rideva di cuore delle mie battute, scoprendo i bellissimi denti bianchi.
Corrado si era afflosciato contro il bancone del bar. Lo osservai con più
attenzione. Non si sarebbe detto che, un tempo, fosse stato un buon musicista.
Con un gruppo di amici aveva messo su una band, a cavallo fra gli anni ’70 e
gli ’80. Facevano musica punk, alla maniera
dei CCCP. Lui suonava le tastiere e, quando serviva, era anche cantante, con
una bella voce profonda e tagliente al tempo stesso. Erano bravi ed erano
arrivati ad un passo dalla celebrità.
Avevano registrato alcune canzoni molto belle, dove le sonorità abrasive
ed i testi urlati riuscivano ad esprimere magistralmente l’alienazione e la
frustrazione di quella generazione di giovani.
“Ho dovuto fare delle scelte, sai, nella vita”
Si era scosso e ora mi guardava
con aria solenne.
“Al tempo in cui suonavo, intendo. Sai, abbiamo lavorato sodo per diversi
anni, poi finalmente era arrivato il nostro momento. I CCCP ci avevano chiamato
come band d’apertura del loro tour ed avevamo anche fatto dei passaggi in
televisione. Il nostro agente ci stava mettendo su un tour nostro, a livello
europeo. Pensa, in quegli anni era roba, sai”
“E poi?”
“E poi c’è che ci siamo messi a pensare. Io soprattutto, ma anche gli
altri. A cosa era meglio, se provare a sfondare o pensare concretamente al nostro
futuro. A me il punk piaceva veramente, era il mezzo per riuscire a tirare
fuori quello che ci pesava dentro. Mi liberava dalla frustrazione e dal senso
di impotenza verso il nostro mondo così ingiusto. Davo voce ai miei pensieri
più intimi e quando ero sul palco mi sentivo veramente libero”
Mi fissò a lungo, ma stava probabilmente guardando il se stesso di
allora.
“Io allora mi ero appena messo con Giorgia e sognavo una vita insieme a
lei. Mi accorgevo che il punk non era una soluzione. Voglio dire, mi serviva
per scaricarmi ma non mi indicava quale via seguire. Volevo darle un futuro, a
lei ed ai bambini che sarebbero venuti; e questo non poteva arrivare dall’ideologia
punk. Poi, senza ideologia, non potevo pensare di continuare a fare quella
musica. Così ho scelto di pensare a lei e ad un
futuro concreto”
“E allora? Non ne sei contento?”
“Sì, ma non è questo il punto. Non rimpiango quella scelta, perché mi ha
dato modo di costruire qualcosa di importante. Ma è proprio perché ho avuto
quello che volevo che ora ho ancora più paura. Io ora mi sento utile,
importante. Qualcuno mi direbbe che con la band avrei potuto avere di più a
livello personale, che sarei diventato famoso. Uno di quelli che la gente ferma
per strada per chiedergli l’autografo o per farci una foto insieme con il
cellulare e poi metterla subito su FB. Ma io non tornerei indietro per tutto
l’oro del mondo. Sono contento così; mi sento realizzato, penso di aver
costruito qualcosa con Giorgia. Sono trent’anni che stiamo insieme e in tutti
questi anni ho lavorato sodo, cercando di darmi una professionalità in quello
che facevo. Credo di poter dire di essere un buon tecnico. Ma se ora mi
licenziano lo sai anche tu che non troverò un’alternativa. Sono vecchio per un
nuovo lavoro. E per la pensione nemmeno a parlarne! Cosa credi che mi resti, se
vado via da qui? Io li vedo certi miei coetanei andare in giro ad infilare
depliant nelle buche delle lettere. Compiti, attenti come se stessero facendo
il lavoro più importante del mondo, tirati a lucido per evitare di lasciarsi
andare alla disperazione. Quanto potrei durare in quella situazione? Con due
ragazzi che ancora studiano e la Giorgia che non si può certo mettere ora a
cercarsi un lavoro”
In tutto il tempo non avevamo parlato una sola volta di Paco. Io ero
troppo eccitato per sentire il pungolo che mi lavorava dentro. Godevo di ogni
istante di quel pomeriggio meraviglioso, completamente immerso nel contatto con
lei. Sentivo ad ondate il suo profumo inebriarmi le narici, la pelle morbida
del suo braccio ed il ritmico toccarsi dei nostri fianchi. Ogni tanto mi
fermavo e le parlavo volgendomi verso di lei per poterne contemplare le
fattezze. Le prendevo a tratti la mano, come per sottolineare un passaggio
importante di quello che stavo dicendo poi però la mollavo subito, per paura
che fosse lei a ritrarla.
Girovagammo per diverse ore, senza darci una meta, felici semplicemente
di stare insieme. I nostri sensi erano sulla stessa lunghezza d’onda e nulla
poteva spezzare quell’incantesimo. Più di una volta fui sul punto di baciarla,
sicuro che non mi avrebbe respinto.
Ad un tratto il suo braccio, appoggiato al mio, si fece pesante. La
guardai, il viso le era tornato serio.
“Ora devo andare” aveva detto in un soffio. Poi mi aveva gettato le
braccia al collo e baciato con passione. Un attimo dopo era già lontana.
“Lo sai cosa succede?”
Guardai Corrado con aria interrogativa.
“A quelli come me, quando perdono il lavoro”
Scrollai appena la testa.
“Lo so, tu sei giovane. Se dovesse toccare a te - e spero proprio di no!
– non avresti problemi più di tanto. Sei proiettato al futuro e quindi
guarderesti subito avanti, alle possibilità che ti si aprono. In fondo sei come
ero io trent’anni fa. Chiusa un’esperienza ti butteresti in una nuova direzione
senza tanti tentennamenti”
Cercai di dire qualcosa, ma lui continuò.
“Sì, è così, credimi. Ma per me, che ho una vita alle spalle, è tutto
diverso. Ho talmente tante cose da poter rimpiangere che non potrei guardare al
futuro con speranza. Il pensiero di quello che avrei perduto sarebbe sempre lì,
pronto a corrodere ogni entusiasmo. Tutto quello che mi dovesse succedere, ogni
singolo avvenimento di ogni singola giornata sarebbe misurato sul metro di
quello che avrebbe potuto essere se non fossi stato licenziato”
Mi guardò con un’enorme tristezza negli occhi.
“Quanto potrei durare, in quello stato? Un mese, un anno? Sì, all’inizio
cercherei di darmi un contegno, di non lasciarmi andare. Ma come si può fare a
vivere vedendo trascorrere i giorni senza che le tue capacità siano usate nel
modo giusto, senza mettersi alla prova. Si può dormire la sera senza il gusto
di aver concluso un lavoro?”
Aveva le lacrime agli occhi. Gli appoggiai la mano sulla spalla. Volevo
dimostrargli la mia solidarietà
“Vedrai che non ti lasceranno a casa. Credimi!”
Lui sembrò apprezzare il mio gesto. Fece un movimento con la testa, come
per dirmi che avevo ragione. Poi, senza dire altro, ci dirigemmo verso
l’ufficio.
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