Il posto della mente è una piccola oasi letteraria dove possiamo andare quando abbiamo bisogno di qualcosa di diverso. Di leggere, o scrivere storie. Storie inventate, come quelle che io, da principiante, sottopongo al vostro giudizio, oppure storie vere, piccoli "frammenti di vita" che scivolerebbero immediatamente nell'oblio se qualcuno di noi non li raccogliesse.

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domenica 15 luglio 2012

Paco de Luna - Quarto quadro 4 [gianbarly] Stati d'animo


A. Ligabue - Autoritratto

Corrado era il nostro tecnico delle luci. Credo che fosse alla tele fin dal primo giorno; in ogni caso era una delle figure storiche dell’emittente. Di corporatura massiccia ed impedito da un ventre decisamente espanso, riusciva tuttavia a muoversi con una certa grazia fra cavi e tralicci. Vestiva invariabilmente una camicia bianca ed un paio di jeans, con sopra una giacca blu. Il tutto gli dava un aspetto serio cui faceva contrasto la lunga capigliatura brizzolata che lui teneva sempre raccolta a coda di cavallo.
Mi aveva bloccato mentre mi accingevo ad entrare in ufficio, proponendomi di prendere un caffè insieme. Non avevo saputo dirgli di no.
“Franchino, io ho cinquantadue anni” mi disse guardandomi intensamente con gli occhi lucidi.

Io finsi di essere intento a sorbire il caffè, ma in realtà la mia testa era da tutt’altra parte.
“Si vede che tu non sai neppure cosa vuol dire …”
E intanto scuoteva la testa con aria desolata.

Avevo preso per mano Lourdes e l’avevo letteralmente catapultata fuori dal locale. Non avrei potuto sopportare di stare un solo altro istante là dentro. Di colpo mi era presa la smania di farle vedere la città. Il suo volto serio, quando ero arrivato, mi aveva rivelato quanto lei avesse bisogno di allegria, di aria fresca e frizzante, di parole che non fossero sempre e solo incentrate su Paco. Per Dio! Era una persona anche lei, aveva le sue emozioni, forse anche delle ambizioni che riguardassero solo lei. Non poteva vivere tutta una vita in funzione di quell’uomo.

“Sei giovane, tu. Non puoi capire fino in fondo, ma io ho paura!”
Il tono di Corrado mi riportò al presente. Lo guardai con aria perplessa.
“Sì, Franchino, io ho paura. Quella maledetta lista! Lo so che ci sono anch’io!”
“Ma no, a te chi vuoi che ti licenzi?”
“No, magari fosse così! Non vedi che non c’è più spazio per quello che faccio? Prima la tele produceva molti dei suoi programmi, poi ad uno ad uno li ha dismessi, riempiendo i palinsesti di robaccia presa in giro per il mondo. Ora ho sentito dire che anche le televendite non le faremo più noi. Sai cosa significa?”

Lo sapevo, Sì che lo sapevo ma non me ne fregava niente, in quel momento. Avevo in mente solo la lunga passeggiata con Lourdes, alla scoperta degli angoli più nascosti della città. Mi ero improvvisato cicerone, scoprendo di sapere molte più cose sulla mia città di quelle che avrei potuto immaginare. Parlavo veloce, infarcendo il discorso con aneddoti ed osservazioni caustiche sui modi di essere dei vari tipi di persone. Lourdes si era mollemente appoggiata al mio braccio e assecondava il mio entusiasmo, interessandosi ad ogni particolare come se fosse realmente una straniera appena giunta in città. Rideva di cuore delle mie battute, scoprendo i bellissimi denti bianchi.

Corrado si era afflosciato contro il bancone del bar. Lo osservai con più attenzione. Non si sarebbe detto che, un tempo, fosse stato un buon musicista. Con un gruppo di amici aveva messo su una band, a cavallo fra gli anni ’70 e gli ’80. Facevano musica punk, alla maniera dei CCCP. Lui suonava le tastiere e, quando serviva, era anche cantante, con una bella voce profonda e tagliente al tempo stesso. Erano bravi ed erano arrivati ad un passo dalla celebrità.
Avevano registrato alcune canzoni molto belle, dove le sonorità abrasive ed i testi urlati riuscivano ad esprimere magistralmente l’alienazione e la frustrazione di quella generazione di giovani.
“Ho dovuto fare delle scelte, sai, nella vita”
 Si era scosso e ora mi guardava con aria solenne.
“Al tempo in cui suonavo, intendo. Sai, abbiamo lavorato sodo per diversi anni, poi finalmente era arrivato il nostro momento. I CCCP ci avevano chiamato come band d’apertura del loro tour ed avevamo anche fatto dei passaggi in televisione. Il nostro agente ci stava mettendo su un tour nostro, a livello europeo. Pensa, in quegli anni era roba, sai”
“E poi?”
“E poi c’è che ci siamo messi a pensare. Io soprattutto, ma anche gli altri. A cosa era meglio, se provare a sfondare o pensare concretamente al nostro futuro. A me il punk piaceva veramente, era il mezzo per riuscire a tirare fuori quello che ci pesava dentro. Mi liberava dalla frustrazione e dal senso di impotenza verso il nostro mondo così ingiusto. Davo voce ai miei pensieri più intimi e quando ero sul palco mi sentivo veramente libero”
Mi fissò a lungo, ma stava probabilmente guardando il se stesso di allora.
“Io allora mi ero appena messo con Giorgia e sognavo una vita insieme a lei. Mi accorgevo che il punk non era una soluzione. Voglio dire, mi serviva per scaricarmi ma non mi indicava quale via seguire. Volevo darle un futuro, a lei ed ai bambini che sarebbero venuti; e questo non poteva arrivare dall’ideologia punk. Poi, senza ideologia, non potevo pensare di continuare a fare quella musica. Così ho scelto di pensare a lei e ad un  futuro concreto”
“E allora? Non ne sei contento?”
“Sì, ma non è questo il punto. Non rimpiango quella scelta, perché mi ha dato modo di costruire qualcosa di importante. Ma è proprio perché ho avuto quello che volevo che ora ho ancora più paura. Io ora mi sento utile, importante. Qualcuno mi direbbe che con la band avrei potuto avere di più a livello personale, che sarei diventato famoso. Uno di quelli che la gente ferma per strada per chiedergli l’autografo o per farci una foto insieme con il cellulare e poi metterla subito su FB. Ma io non tornerei indietro per tutto l’oro del mondo. Sono contento così; mi sento realizzato, penso di aver costruito qualcosa con Giorgia. Sono trent’anni che stiamo insieme e in tutti questi anni ho lavorato sodo, cercando di darmi una professionalità in quello che facevo. Credo di poter dire di essere un buon tecnico. Ma se ora mi licenziano lo sai anche tu che non troverò un’alternativa. Sono vecchio per un nuovo lavoro. E per la pensione nemmeno a parlarne! Cosa credi che mi resti, se vado via da qui? Io li vedo certi miei coetanei andare in giro ad infilare depliant nelle buche delle lettere. Compiti, attenti come se stessero facendo il lavoro più importante del mondo, tirati a lucido per evitare di lasciarsi andare alla disperazione. Quanto potrei durare in quella situazione? Con due ragazzi che ancora studiano e la Giorgia che non si può certo mettere ora a cercarsi un lavoro”

In tutto il tempo non avevamo parlato una sola volta di Paco. Io ero troppo eccitato per sentire il pungolo che mi lavorava dentro. Godevo di ogni istante di quel pomeriggio meraviglioso, completamente immerso nel contatto con lei. Sentivo ad ondate il suo profumo inebriarmi le narici, la pelle morbida del suo braccio ed il ritmico toccarsi dei nostri fianchi. Ogni tanto mi fermavo e le parlavo volgendomi verso di lei per poterne contemplare le fattezze. Le prendevo a tratti la mano, come per sottolineare un passaggio importante di quello che stavo dicendo poi però la mollavo subito, per paura che fosse lei a ritrarla.
Girovagammo per diverse ore, senza darci una meta, felici semplicemente di stare insieme. I nostri sensi erano sulla stessa lunghezza d’onda e nulla poteva spezzare quell’incantesimo. Più di una volta fui sul punto di baciarla, sicuro che non mi avrebbe respinto.
Ad un tratto il suo braccio, appoggiato al mio, si fece pesante. La guardai, il viso le era tornato serio.
“Ora devo andare” aveva detto in un soffio. Poi mi aveva gettato le braccia al collo e baciato con passione. Un attimo dopo era già lontana.

“Lo sai cosa succede?”
Guardai Corrado con aria interrogativa.
“A quelli come me, quando perdono il lavoro”
Scrollai appena la testa.
“Lo so, tu sei giovane. Se dovesse toccare a te - e spero proprio di no! – non avresti problemi più di tanto. Sei proiettato al futuro e quindi guarderesti subito avanti, alle possibilità che ti si aprono. In fondo sei come ero io trent’anni fa. Chiusa un’esperienza ti butteresti in una nuova direzione senza tanti tentennamenti”
Cercai di dire qualcosa, ma lui continuò.
“Sì, è così, credimi. Ma per me, che ho una vita alle spalle, è tutto diverso. Ho talmente tante cose da poter rimpiangere che non potrei guardare al futuro con speranza. Il pensiero di quello che avrei perduto sarebbe sempre lì, pronto a corrodere ogni entusiasmo. Tutto quello che mi dovesse succedere, ogni singolo avvenimento di ogni singola giornata sarebbe misurato sul metro di quello che avrebbe potuto essere se non fossi stato licenziato”
Mi guardò con un’enorme tristezza negli occhi.
“Quanto potrei durare, in quello stato? Un mese, un anno? Sì, all’inizio cercherei di darmi un contegno, di non lasciarmi andare. Ma come si può fare a vivere vedendo trascorrere i giorni senza che le tue capacità siano usate nel modo giusto, senza mettersi alla prova. Si può dormire la sera senza il gusto di aver concluso un lavoro?”
Aveva le lacrime agli occhi. Gli appoggiai la mano sulla spalla. Volevo dimostrargli la mia solidarietà
“Vedrai che non ti lasceranno a casa. Credimi!”
Lui sembrò apprezzare il mio gesto. Fece un movimento con la testa, come per dirmi che avevo ragione. Poi, senza dire altro, ci dirigemmo verso l’ufficio.

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