Egon Schiele - L'abbraccio |
Avevo dentro di me un fuoco che ardeva, una sensazione che mai avevo
provato prima di allora. Il corpo di Lourdes mi stordiva con la sua vicinanza.
Passavo con delicatezza i polpastrelli sulla sua schiena nuda traendone un
piacere infinito. Allo stesso modo lei accarezzava me ed ogni minimo contatto
fra di noi aveva la forza di un uragano. I nostri sensi eccitati raccoglievano
anche il più piccolo stimolo, amplificandone la forza. Non mi stancavo di
percorrerle con la punta del naso l’incavo fra il collo e la spalla,
inebriandomi dei mille aromi che la sua pelle di velluto era capace di
sprigionare e che io mai mi ero sognato di saper distinguere così nettamente
uno dall’altro. Poi mi staccavo per un attimo dal suo abbraccio per poterle
guardare il seno. Mai i miei occhi si erano posati su qualcosa di altrettanto
portentoso.
Ogni curva, ogni avvallamento del suo corpo mi suscitava
un’eccitazione straordinaria. Ondate di piacere mi salivano lungo la spina
dorsale, irraggiandosi in tutto il torace per poi confluire nella testa, dove
esplodevano in mille fuochi colorati. Cominciai a leccarla sulla punta del
mento, scendendo in complicate volute lungo il collo per poi risalire sui
rilievi del seno. Lei rispondeva inarcando allo spasimo la schiena ed
offrendosi tutta ai miei assalti. Avviluppai fra lingua e labbra il capezzolo
turgido e, ad ogni centimetro che la mia lingua percorreva, un nuovo e diverso
gusto mi invadeva la bocca. Era salata e dolce, frizzante e lieve, aspra e
vellutata come niente altro fino ad allora. Tesi l’orecchio per sentire come il
suo corpo risuonasse in risposta agli stimoli che le davo con le mani e con la
lingua. Udii il suono ritmico del suo cuore che si spandeva ad onde sulla
superficie della pelle, facendola contrarre ed espandere secondo i segreti
percorsi del piacere.
Ci amavamo con una intensità assoluta, ma senza frenesia, anzi con la calma
di chi sa che per certe cose non ci vuole fretta. Non eravamo naufraghi
assetati che si gettano con furia nella pozza d’acqua; non sopravvissuti denutriti
che affondano il viso dentro il piatto che viene finalmente loro offerto.
Nemmeno ci sentivamo dei clandestini che devono consumare in fretta la loro
passione irrivelabile. Stavamo semplicemente facendo la cosa più naturale del
mondo, quella più giusta e la facevamo in sintonia con il ritmo placido
dell’universo. Non c’era stato bisogno di parole o di accordi fra di noi. Ci
eravamo trovati là dove sapevamo di essere ed eravamo andati, senza scambiare
una sola parola, verso casa mia. Entrando Lourdes aveva appena dato un’occhiata
in giro e poi aveva cominciato a spogliarsi. Io la guardavo ed intanto
armeggiavo senza fretta con i miei bottoni. Ci toglievamo i vestiti con estrema
naturalezza, come per esporre l’un l’altro gli strati più profondi del nostro
animo. In poco tempo ci trovammo nudi, a guardarci dentro con la crescente
consapevolezza di trovarci, dopo esserci a lungo cercati. Lourdes allargò le
braccia, invitandomi così a perdermi in lei, come solo la Natura è capace di
fare con i suoi figli. C’era tutto in quell’abbraccio: smarrimento, protezione,
soffio vitale e annullamento. I nostri corpi iniziavano così a prendere
coscienza l’uno dell’altro mentre i nostri esseri si fondevano in un impasto
che amalgamava le differenze, esaltando le affinità e smussando ogni possibile
punto di frizione. E quell’impasto non era fatto solo di noi ma, anzi, tendeva
ad includere tutto quello che ci circondava, la stanza dove eravamo, la casa,
e, in volute sempre più ampie, il palazzo, le vie circostanti e tutta la città.
In quel momento ci sentivamo di essere il centro pulsante di un vortice
immenso, delle dimensioni dell’intera galassia.
Nulla, in quei momenti, turbava la sicurezza che mi aveva invaso. Mi
ritrovavo di colpo a sapere esattamente cosa fare e come farlo, con la maestria
dell’artigiano che ripete per la millesima volta il suo gesto antico, sapendo
che esso produrrà proprio l’effetto cercato. Non che il mondo circostante, con
le sue trappole ed i mille volti che assume, fosse sparito. Era sempre lì,
intorno a me. Ma ora mi sentivo capace di affrontarlo, schivandone gli inganni
e prendendomi la responsabilità delle scelte che avrei fatto. L’aver trovato
Lourdes mi dava una carica straordinaria e quella lucidità che avevo cercato
invano fino ad allora.
Bocca contro bocca, i nostri respiri si fondevano in maniera sempre più
profonda. Le mani si facevano più impazienti ed audaci, i fianchi cominciavano
a muoversi al ritmo dell’amore. Sentivo le sue dita percorrermi frenetiche il
membro, accarezzandolo e guidandolo verso la sua meta. Sotto le mie dita il suo
sesso pulsava, reclamando di accogliere ciò che l’avrebbe reso completo. La
penetrai con studiata lentezza, strappandole un gemito prolungato. Mi muovevo
dentro di lei ebbro di piacere. Le nostre gole prorompevano in guaiti spezzati,
i petti ansimavano. Sudore e saliva, brividi e vampe di calore, mani
intrecciate e piedi che scalciano. Acciaio puro che pulsa all’interno del suo
corpo. Velluto ed elettricità che avvolgono tutto il mio essere. Giorno e
notte, dolce e salato, freddo intenso e caldo torrido. Lastre di ghiaccio che
entrano crepitando in un altoforno. Vita e morte, annullamento e
consapevolezza. Onde sempre più brevi ed intense che si infrangono sugli scogli
in un’esplosione di schiuma bianchissima. La parte più interna dell’anima che
esce dal corpo per perdersi dentro al
suo. Gemiti in toni più bassi e profondi, respiri spezzati affamati di aria,
muscoli che sembrano rilassarsi per poi contrarsi ancora. Braccia estenuate che
si afflosciano in un languido abbraccio.
Poi null’altro che il placido abbandono di due corpi esausti, fra le onde
disordinate delle lenzuola.
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