R.Magritte - The son of man |
Com’era andata con Paco? Rimuginavo dentro di me quella domanda senza
riuscire a darmi una risposta convincente. Eppure avrei dovuto essere
soddisfatto, avevo raccolto un bel po’ di materiale. Avevo, soprattutto, una
serie di squarci sul suo passato, sui primi passi della sua carriera. Qualcosa
che non mi sarei aspettato. C’era vita, vita vera là dentro, da far
appassionare gli spettatori. C’era il modo in cui la raccontava lui e c’era
quello di Lourdes. Un controcanto con i fiocchi. Eppure …
Eppure non mi sentivo tranquillo. Avevo dentro un’irrequietudine, un
senso di disagio che non mi dava pace. Invece di godere del mio successo
professionale, provavo un indefinito senso di colpa nei confronti dell’artista,
come se gli avessi rubato qualcosa, anche se di fronte a lui non mi era
possibile nascondere nulla; mi leggeva nel pensiero con la stessa facilità con
cui scorreva uno spartito. Questo avrebbe dovuto mettermi tranquillo; in fondo
lui sapeva sempre tutto di me, anche degli incontri al bar con Lourdes, ne ero
certo. Eppure non riuscivo a togliermi da dentro questa sensazione spiacevole
di mancanza di lealtà nei suoi confronti.
Passai dall’ospedale, come ogni giorno a quell’ora, per avere notizie
delle condizioni di Giuliana. Niente di nuovo: era sempre in coma profondo, senza dare segni di recupero o di
peggioramento. Nella sala d’attesa incrociai il suo uomo. Aveva un’aria
ostinata, come di chi cerca di resistere alle continue aggressioni del destino.
La naturale crudeltà del mondo sembrava stampata nei lineamenti stessi del suo
viso. La sua espressione ti diceva che era uno che non si aspettava un gesto di
solidarietà, che avrebbe compreso più facilmente un pugno sferrato senza
apparente motivo che una carezza. Era probabilmente da questa convinzione così
profondamente radicata che riusciva a trarre la forza di resistere. Il primo
indiziato per quello scempio era stato proprio lui e la polizia non c’era
andata leggera. Anche noi della stampa avevamo fatto la nostra parte, pur non
additandolo mai in modo diretto. Per non parlare poi del tam tam ossessivo
delle lingue lunghe che aveva sviluppato le proprie indagini parallele,
imbastendo non uno, ma mille diversi processi su ogni possibile aspetto della
sua vita. Mille processi e mille condanne senza possibilità di appello. Ma lui
aveva resistito e ne era uscito pulito. Per quanto riguardava la polizia,
almeno.
La vista di quell’uomo fece aumentare il mio malumore. Non me la sentivo
di tornare in redazione. Cercavo fra me e me un pretesto per concludere la
giornata senza altre frustrazioni. Finii per accomodarmi ad un tavolino
all’aperto di un bar del lungofiume. Il tempo non era male e la temperatura
ancora sopportabile. Ordinai una bibita cercando di non pensare. Mi immersi per
un po’ nella contemplazione di ciò che avevo intorno. Ad un certo punto vidi
arrivare uno che conoscevo. Si trattava del Moretti, con cui avevo condiviso
molte serate nel corso degli anni. Ci conoscevamo abbastanza bene senza però
essere mai diventati veramente amici.
Lo invitai a sedersi e lui ne fu ben felice. Prese possesso della sedia
più comoda fra quelle che aveva intorno e ci si installò con la modalità di chi
non ha la minima intenzione di muoversi di lì per i prossimi millenni. Lui era
fatto così, era la pigrizia in persona. Orgogliosamente pigro, come amava dire.
Il suo orizzonte culturale (e fisico) era lo schermo LCD da quaranta pollici e
la sua ginnastica limitata ai rapidi movimenti del pollice sul telecomando. Aveva
un eloquio anche piacevole se si accettava di limitarlo alle vicende del basket
americano o alle serie tv più o meno famose. Per me era, in quel momento, un
diversivo che sentivo mi avrebbe fatto bene.
Gli chiesi scherzosamente se c’era qualcosa per cui fosse disposto a
lottare.
“Certo che sì!” mi rispose con impeto inconsueto. “Per difendere il mio
diritto a stare comodamente seduto, cazzo!” Su quello non era disposto a
transigere e poteva anche accettare di buttarci delle energie. Una bella
coerenza, nulla da dire.
Dopo un’oretta decisi che era tempo di andare e lo lasciai alla sua
occupazione preferita. Mi stavo avviando verso casa quando al mio fianco
comparve Paolo.
Gli dissi dei miei progresso con Paco.
“Bravo, Francesco!” disse lui, battendomi calorosamente la mano sulla
spalla “ci voleva proprio, in questo momento”
Lo guardai cercando una sua conferma.
Annuì. Non c’era dubbio: si riferiva alla lista.
Com’era a volte nel suo stile, cambiò improvvisamente discorso. Mi
domandai improvvisamente dove volesse
andare a parare. Ormai lo conoscevo troppo bene e riuscivo a leggere con
facilità i suoi atteggiamenti. Iniziava di colpo a parlare di un qualcosa, come
se gli venisse in mente proprio in quel preciso momento. Solo una
frequentazione intensa mi permetteva di cogliere il reale interesse che aveva
alla questione.
“Dì un po’ …” esordì guardandomi dritto negli occhi con quella sua aria
canzonatoria. “Ce l’hai davvero così tanto con Maria?”
Un discorso così diretto mi allarmò alquanto. Cosa poteva significare
quella domanda? Aveva qualcosa a che fare con la faccenda della lista? Ma con
lui non ero disposto a compromessi ipocriti.
“Lo sai” risposi, chiedendomi se anche lui si fosse buttato sul carro dei
vincitori. In cuor mio sperai ardentemente di no, l’avrei considerato un
tradimento e dei peggiori.
Lui mi squadrò a lungo e poi esplose in una risata.
“Tranquillo Francesco, non farti delle idee. E’ solo che non ti ho mai
visto dare contro in maniera così decisa ad una persona. Le hai dato
addirittura della troia, ricordi?”
Ecco qual’era il punto! Che stupido ero stato a preoccuparmi, avrei
dovuto capire al volo, conoscendolo. Mi aveva sentito tirar fuori quell’epiteto
e la cosa non gli tornava. E quando una cosa non riusciva ad inquadrarla in
modo soddisfacente era capace di tenerla a mente per anni, fino a quando poteva
tornarci sopra per chiarirla a dovere.
Mi rilassai e gli raccontai di quello che avevo visto al bowling.
“Ora è tutto chiaro” disse lui alla fine, guardando nel vuoto davanti a
se.
Le nostre strade si divisero ed io mi avviai finalmente verso casa. Era
stata una giornata pesante e non vedevo l’ora di farmi una doccia. Ma fra me e
me sapevo che una doccia non sarebbe bastata a diradare la cappa di piombo che
avevo addosso in quei giorni. Che tutti noi della tele avevamo addosso, per
essere precisi. La misteriosa aggressione di Giuliana ci aveva colpiti, così
come altri fatti di cronaca di quei giorni. Per giunta in città stava
circolando della roba nuova, certe pastiglie da sballo pesante e c’erano già
stati due o tre casi di ragazzi finiti al Pronto Soccorso. Poi c’erano degli
strani movimenti nella palude della malavita. Sì, qualcosa stava bollendo,
sotto la crosta. Non ci avevo riflettuto abbastanza fino a quel momento, troppo
preso da quella maledetta Lista.
Come tutti gli altri, del resto. Non avremmo potuto farne a meno, anche
volendo. Ci pensava l’Antonia a ricordarcela. Da quando si era sparsa la voce
che la proprietà aveva intenzione di sfoltire l’organico di quattro o cinque
elementi, lei aveva cominciato ad andare in giro con una cartellina nera.
Attraversava la redazione con il suo passo deciso, tenendola stretta al petto,
in modo che tutti la vedessero. Non la lasciava mai e neppure l’apriva, ma il
messaggio era inequivocabile: lì dentro c’era la lista dei candidati al
licenziamento. Ogni tanto si chiudeva nel box direzionale con Maria e Luciano e
si faceva vedere attraverso i vetri nell’atto di consultare un qualche foglio
tirato fuori dalla misteriosa cartellina.
Ognuno si era fatto l’esame e si era scoperto improvvisamente fragile.
Tutti avevamo una pecca, un qualche lato esposto alle critiche. Tutti potevamo
essere, per una ragione o per l’altra, su quella lista e nessuno se lo poteva
permettere. L’idea di rimettersi in cerca di un lavoro non piaceva a nessuno.
Non che la vita là dentro fosse tutta rose e fiori, tutt’altro; ma sempre
meglio di dover incassare un rifiuto dopo l’altro, nel tentativo di afferrare
un qualsiasi lavoro. Molti di noi erano a TeleCittà già da alcuni anni e,
nonostante la precarietà dei contratti, si sentivano comunque parte di un
progetto. Non l’avremmo mai confessato, neanche sotto tortura, ma ad ognuno di
noi era passato per la mente che comunque un nome era già sicuro, quello della
povera Giuliana.
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