Il posto della mente è una piccola oasi letteraria dove possiamo andare quando abbiamo bisogno di qualcosa di diverso. Di leggere, o scrivere storie. Storie inventate, come quelle che io, da principiante, sottopongo al vostro giudizio, oppure storie vere, piccoli "frammenti di vita" che scivolerebbero immediatamente nell'oblio se qualcuno di noi non li raccogliesse.

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sabato 26 maggio 2012

Paco de Luna - Quarto quadro 1 [gianbarly] Sì, viaggiare


David Burliuk - s.n.
Ascoltavo con aria trasognata la voce che usciva dalla cornetta. Era la prima volta che parlavo al telefono con Paco e, cosa ancor più incredibile, era stato il musicista a prendere l’iniziativa di chiamarmi.  Alla sorpresa si sovrappose ben presto un senso di liberazione; quella telefonata rompeva la cappa ossessiva che premeva sulla vita dell’emittente da quando era successo il fatto di Giuliana. Poi, altro fatto notevole, il tono di Paco era tranquillo, quasi allegro.

Ogni traccia della sua irascibilità era scomparsa.
“Vieni con me, andiamo a comprare la chitarra”. Non era un invito, era un dato di fatto. Non mi restava che raccogliere rapidamente gli strumenti di lavoro ed avviarmi.

La prima cosa di cui mi accorsi quando fui in macchina, era che Paco guidava malissimo. Più che guidare, avanzava nel traffico in maniera anarchica, come se non esistessero regole. Seguiva in maniera approssimativa le macchine che lo precedevano, imitandone maldestramente le manovre. Quando, per fortuna raramente, trovava un pezzo di strada libera davanti a se, accelerava bruscamente invadendo senza riguardi la corsia opposta e solo il sopraggiungere di macchine che minacciavano di schiantarsi contro di noi lo induceva a rimettersi dalla parte giusta. Semafori e precedenze non esistevano, le questioni venivano risolte con improvvise inchiodate e brevi saltelli in avanti.
Io ero terrorizzato. Stavo irrigidito al mio posto senza riuscire a spiccicare parola. Lui era invece tranquillo e parlava ininterrottamente. Sembrava non accorgersi degli improperi degli altri automobilisti e dei passanti che aveva rischiato di travolgere. L’unico suo pensiero era la chitarra.
Mi chiese ad un certo punto se conoscessi un buon negozio di musica. A stento riuscii ad indicargli un posto, non lontano da dove ci trovavamo in quel momento.

Entrando, cercai di recuperare un minimo di controllo ma non riuscivo a pensare ad altro che al momento in cui avrei dovuto risalire in macchina. Decisi all’istante che avrei inventato una scusa per lasciare Paco non appena acquistato lo strumento.
Avevo però fatto i conti senza considerare chi avevo di fronte. Appena dentro il negozio Paco cessò di colpo di interessarsi a qualunque cosa. Guardava distrattamente in giro senza dar minimamente ascolto al commesso che si era precipitato a servirci. Toccò a me, dopo un lungo silenzio imbarazzato, spiegare perché eravamo lì e sempre io dovetti sorbirmi la presentazione delle caratteristiche di tre differenti tipi di chitarre acustiche.
Paco girellava con passo indolente fra gli scaffali, era annoiato e non faceva nulla per dissimularlo. Toccava tutto quello che c’era sugli scaffali con fare maldestro, come un bambino che voglia attirare in quel modo l’attenzione della madre.
Ad un tratto mi afferrò  per un braccio, dicendomi:
“Vieni, andiamo via”
Mi trascinò fuori lasciando il commesso a metà di una frase.
Non tentai nemmeno di protestare e mi ritrovai di nuovo in macchina, a tu per tu con l’incubo che avevo appena lasciato. Paco non parlava più e guidava seguendo un suo personale pensiero.
Per un po’ assecondai il suo silenzio, poi gli chiesi con un filo di voce, maledicendomi per l’esitazione che rendevo manifesta:
“Dove andiamo?”
“Da uno” fu la risposta, seguita da un gesto della mano che a me sembrò indicare un posto lontano. Ora Paco guidava in maniera più tranquilla, quasi normale. Riuscii a rilassarmi e, in questo modo, mi resi pian piano conto che, in fondo, c’era un metodo in quell’anarchia.
Lui  non seguiva, è vero, le normali regole del codice della strada, ma un suo personale ritmo in cui si mischiava lo stato d’animo del momento con le specifiche condizioni di traffico. Più macchine c’erano e più la sua guida diventava nervosa, con continui strappi ed improvvise frenate. Così come l’uso corretto degli strumenti di bordo dipendeva dallo stato di maggiore o minore calma che c’era nella sua testa. Ora, evidentemente, aveva una precisa idea da portare avanti. Inoltre si era immesso sui larghi viali di periferia, dove, a quell’ora, non c’era particolare traffico.

Intanto aveva ricominciato a parlare. Mi raccontava di fatti e di persone sconosciute, di piccoli episodi a cui lui sembrava dare una grande importanza.
“Quando Demetrio è venuto dentro, capisci?, non potevo certo dirgli di sì. Che te ne pare?”
Feci un vago cenno del capo.
“Eh, dici bene tu, giornalista. Ma poi tocca a me rimetterlo in pista. No, no, non mi voglio trovare di nuovo come l’anno scorso con quel buono a nulla di Roby. Vedi, il sottoscritto qui, lavora giorno e notte, non si tira mai indietro, e poi …”
Troncò la frase e rimase per un po’ in silenzio.
“Giù da me era diverso, sai?”
Non si riusciva proprio a trovare il bandolo della matassa. Saltava da un argomento all’altro senza darmi il tempo di capire. Giù dove?
“Dai che hai capito, scemo. In Argentina, no?”
Ancora una volta mi aveva letto nel pensiero. Comunque la cosa cominciava a farsi interessante. Lentamente estrassi la telecamera dalla custodia e l’accesi. Poteva uscirne qualcosa di buono.
Paco annuì.
“Ogni tanto ci penso a quando ero laggiù”
Pausa
“Si stava bene, sai? Avevo un bello spazio per la mia musica. Un bel gruppo, anche”
Mi guardò con un sorriso beato.
“Sì che si stava bene, proprio. Altra vita, altra gente. Dico, non come qua, tutti di corsa, lavoro – lavoro - lavoro! Eh, che ne dici, ti piacerebbe laggiù?”
Io mi fingevo impegnato ad armeggiare con la mia attrezzatura per evitare di dargli delle risposte. Temevo che qualunque cosa dicessi, potesse rompere l’incantesimo di quel momento.

Lourdes però mi aveva raccontato un’altra storia. Due giorni prima ci eravamo visti al solito bar. L’avevo fatta parlare e lei non si era tirata indietro. Mi aveva detto dell’Argentina, dei genitori di Paco. Gente molto, ma molto borghese, cui non piaceva la vocazione artistica del figlio. In casa, quando c’era lui, la tensione si tagliava con il coltello. Non c’erano parole di incoraggiamento, nessuna partecipazione ai suoi sforzi per diventare un buon cantante. Non c’erano soldi per finanziare l’acquisto degli strumenti, anche se ne usavano a fiumi per le cose più venali.

“Avevo degli amici, al mio paese. Grandi persone. Con loro la musica veniva facile, ci mettevamo lì, così, senza pensarci … Uno attaccava un accordo e gli altri gli andavano dietro. Si stava intere notti suonando a ruota libera, solo per divertimento, sai?”
La macchina seguiva il ritmo dei suoi pensieri, muovendosi pericolosamente fra le corsie del  viale di periferia. Stavamo lasciando la città.
“Josè Maria, ah! Era un fenomeno. Lui sì che era un grande, avresti dovuto conoscerlo, caro mio”
Mi diede un colpetto alla spalla con la mano, facendomi trasalire.

I suoi amici, già. Non mi era parso che a Lourdes piacessero così tanto. Aveva accennato qualcosa, non ricordavo bene, ma di sicuro mi aveva lasciato questa impressione. Cercavo di recuperare nella mia mente le sue parole ma mi accorsi che non le avevo memorizzate. Probabilmente non le avevo proprio sentite perché, solo ora me ne rendevo conto, ero totalmente preso dalla bellezza di lei. La guardavo parlare e ad ogni frase che diceva mi sembrava diventare più bella. Fino a quel momento non l’avevo considerata più di tanto, in verità per me era solo un mezzo per arrivare a Paco. Sì, mi aveva colpito la sua determinazione, la passione che metteva in tutto ciò che faceva, ma nulla più. In quel momento, solo in quel momento mi ero reso conto di aver davanti una donna. Un essere, con le sue passioni e le sue paure, forte e fragile allo stesso tempo. Lei parlava ed io non la sentivo, ero troppo impegnato a scoprirla per la prima volta. Quanti anni aveva? Non lo so, ma mi ero sempre figurato che fosse molto più grande di me. Ora che finalmente la vedevo veramente, mi ero reso conto che era probabilmente mia coetanea. Molto più giovane di Paco, quindi.
Lourdes ad un certo punto aveva assunto un’espressione dura, di totale chiusura, quando aveva iniziato a parlare dei fratelli di Paco. Lui era il terzo di quattro figli. L’ultima era una femmina, l’unica che l’avesse capito, in famiglia. “Gli altri due no!” aveva detto con forza. Erano come i genitori, borghesi fino nel midollo. Figli perfetti per quella famiglia. Ipocriti che non sgarrano una telefonata per Natale e per il compleanno di Paco. Ciao, come stai? Sono contento di sentirti. Ma pensi di tornare, un giorno? Ora Lourdes era un fiume in piena. Capisci, mi diceva, per loro è intollerabile che lui se ne sia andato. Non si lascia la famiglia, non ci si muove da Rosario, chissà cosa c’è fuori, sicuramente qualcosa di pericoloso e di sconveniente, ci puoi giurare!
Una riga le solcava la fronte, un lampo meraviglioso in mezzo ai capelli crespi.

“Sai cos’avevo, quando ero laggiù?” disse, mentre mi squadrava con aria ironica.
Tacque a lungo, come aspettando una mia risposta ma io mi guardai bene dal fare anche solo che un cenno del capo.
“Avevo la cosa più preziosa del mondo, cazzo! Il tempo, tutto il tempo del mondo!”
Diede una manata sul volante, facendo suonare involontariamente il clacson.
“Sai cosa vuol dire avere tempo? Eh, lo sai?”
Sì che lo sapevo. Quante volte mi ero sentito inadeguato, non all’altezza perché non mi era bastato il tempo per fare le cose come si doveva.

Eppure Lourdes aveva parlato di una vita continuamente amareggiata dalla mancanza di un rapporto con i genitori. Paco era un ragazzo sensibile e ne soffriva, anche se cercava di non darlo a vedere. Aveva assunto una specie di maschera e rispondeva con un sorriso ad ogni critica, ai continui paragoni con i fratelli, agli obiettivi mancati che gli venivano rinfacciati. Sembrava volare con leggerezza sopra le continue insinuazioni sullo stile di vita suo e dei suoi amici. Alla fine però si era presentato a tutta la famiglia con una valigia in mano ed aveva detto:
“Io me ne vado”

Seguendo il filo contorto dei pensieri di Paco andammo avanti per molte ore. Per fortuna aveva evitato di prendere l’autostrada, preferendo la via normale. Finalmente arrivammo al posto.
Era un piccolo laboratorio artigianale, perso in mezzo ai capannoni di una zona industriale semi-abbandonata. Quando il titolare vide Paco si illuminò e lo condusse subito nel retrobottega, iniziando con lui un fitto colloquio. Io non ero stato invitato e non li seguii. Dopo un tempo infinito Paco riemerse con in mano la sua chitarra.
Per il ritorno gli proposi di lasciarmi guidare. Me ne fu grato, lui era totalmente preso dal suo nuovo acquisto.

Al fiume di domande, ai discorsi melassosi che cercavano di trattenerlo, alle obiezioni su come avrebbe fatto a vivere senza il loro aiuto, aveva risposto semplicemente:
“In Europa” e si era avviato alla porta. Fu allora che suo padre gli gettò dietro quella frase, le ultime parole che Paco avesse più sentito dalla sua voce:
“Vedi almeno di diventare famoso, con quella tua musica!”


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