David Burliuk - s.n. |
Ogni traccia della sua irascibilità era scomparsa.
“Vieni con me, andiamo a comprare la chitarra”. Non
era un invito, era un dato di fatto. Non mi restava che raccogliere rapidamente
gli strumenti di lavoro ed avviarmi.
La prima cosa di cui mi accorsi quando fui in
macchina, era che Paco guidava malissimo. Più che guidare, avanzava nel
traffico in maniera anarchica, come se non esistessero regole. Seguiva in
maniera approssimativa le macchine che lo precedevano, imitandone
maldestramente le manovre. Quando, per fortuna raramente, trovava un pezzo di
strada libera davanti a se, accelerava bruscamente invadendo senza riguardi la
corsia opposta e solo il sopraggiungere di macchine che minacciavano di
schiantarsi contro di noi lo induceva a rimettersi dalla parte giusta. Semafori
e precedenze non esistevano, le questioni venivano risolte con improvvise
inchiodate e brevi saltelli in avanti.
Io ero terrorizzato. Stavo irrigidito al mio posto
senza riuscire a spiccicare parola. Lui era invece tranquillo e parlava
ininterrottamente. Sembrava non accorgersi degli improperi degli altri
automobilisti e dei passanti che aveva rischiato di travolgere. L’unico suo
pensiero era la chitarra.
Mi chiese ad un certo punto se conoscessi un buon
negozio di musica. A stento riuscii ad indicargli un posto, non lontano da dove
ci trovavamo in quel momento.
Entrando, cercai di recuperare un minimo di
controllo ma non riuscivo a pensare ad altro che al momento in cui avrei dovuto
risalire in macchina. Decisi all’istante che avrei inventato una scusa per
lasciare Paco non appena acquistato lo strumento.
Avevo però fatto i conti senza considerare chi avevo
di fronte. Appena dentro il negozio Paco cessò di colpo di interessarsi a
qualunque cosa. Guardava distrattamente in giro senza dar minimamente ascolto
al commesso che si era precipitato a servirci. Toccò a me, dopo un lungo
silenzio imbarazzato, spiegare perché eravamo lì e sempre io dovetti sorbirmi
la presentazione delle caratteristiche di tre differenti tipi di chitarre
acustiche.
Paco girellava con passo indolente fra gli scaffali,
era annoiato e non faceva nulla per dissimularlo. Toccava tutto quello che
c’era sugli scaffali con fare maldestro, come un bambino che voglia attirare in
quel modo l’attenzione della madre.
Ad un tratto mi afferrò per un braccio, dicendomi:
“Vieni, andiamo via”
Mi trascinò fuori lasciando il commesso a metà di
una frase.
Non tentai nemmeno di protestare e mi ritrovai di
nuovo in macchina, a tu per tu con l’incubo che avevo appena lasciato. Paco non
parlava più e guidava seguendo un suo personale pensiero.
Per un po’ assecondai il suo silenzio, poi gli
chiesi con un filo di voce, maledicendomi per l’esitazione che rendevo
manifesta:
“Dove andiamo?”
“Da uno” fu la risposta, seguita da un gesto della
mano che a me sembrò indicare un posto lontano. Ora Paco guidava in maniera più
tranquilla, quasi normale. Riuscii a rilassarmi e, in questo modo, mi resi pian
piano conto che, in fondo, c’era un metodo in quell’anarchia.
Lui non seguiva, è vero, le normali regole del codice della strada, ma un suo personale ritmo in cui si mischiava lo stato d’animo del momento con le specifiche condizioni di traffico. Più macchine c’erano e più la sua guida diventava nervosa, con continui strappi ed improvvise frenate. Così come l’uso corretto degli strumenti di bordo dipendeva dallo stato di maggiore o minore calma che c’era nella sua testa. Ora, evidentemente, aveva una precisa idea da portare avanti. Inoltre si era immesso sui larghi viali di periferia, dove, a quell’ora, non c’era particolare traffico.
Lui non seguiva, è vero, le normali regole del codice della strada, ma un suo personale ritmo in cui si mischiava lo stato d’animo del momento con le specifiche condizioni di traffico. Più macchine c’erano e più la sua guida diventava nervosa, con continui strappi ed improvvise frenate. Così come l’uso corretto degli strumenti di bordo dipendeva dallo stato di maggiore o minore calma che c’era nella sua testa. Ora, evidentemente, aveva una precisa idea da portare avanti. Inoltre si era immesso sui larghi viali di periferia, dove, a quell’ora, non c’era particolare traffico.
Intanto aveva ricominciato a parlare. Mi raccontava
di fatti e di persone sconosciute, di piccoli episodi a cui lui sembrava dare
una grande importanza.
“Quando Demetrio è venuto dentro, capisci?, non
potevo certo dirgli di sì. Che te ne pare?”
Feci un vago cenno del capo.
“Eh, dici bene tu, giornalista. Ma poi tocca a me
rimetterlo in pista. No, no, non mi voglio trovare di nuovo come l’anno scorso
con quel buono a nulla di Roby. Vedi, il sottoscritto qui, lavora giorno e
notte, non si tira mai indietro, e poi …”
Troncò la frase e rimase per un po’ in silenzio.
“Giù da me era diverso, sai?”
Non si riusciva proprio a trovare il bandolo della
matassa. Saltava da un argomento all’altro senza darmi il tempo di capire. Giù
dove?
“Dai che hai capito, scemo. In Argentina, no?”
Ancora una volta mi aveva letto nel pensiero.
Comunque la cosa cominciava a farsi interessante. Lentamente estrassi la
telecamera dalla custodia e l’accesi. Poteva uscirne qualcosa di buono.
Paco annuì.
“Ogni tanto ci penso a quando ero laggiù”
Pausa
“Si stava bene, sai? Avevo un bello spazio per la
mia musica. Un bel gruppo, anche”
Mi guardò con un sorriso beato.
“Sì che si stava bene, proprio. Altra vita, altra
gente. Dico, non come qua, tutti di corsa, lavoro – lavoro - lavoro! Eh, che ne
dici, ti piacerebbe laggiù?”
Io mi fingevo impegnato ad armeggiare con la mia
attrezzatura per evitare di dargli delle risposte. Temevo che qualunque cosa
dicessi, potesse rompere l’incantesimo di quel momento.
Lourdes però mi aveva raccontato un’altra storia.
Due giorni prima ci eravamo visti al solito bar. L’avevo fatta parlare e lei
non si era tirata indietro. Mi aveva detto dell’Argentina, dei genitori di
Paco. Gente molto, ma molto borghese, cui non piaceva la vocazione artistica
del figlio. In casa, quando c’era lui, la tensione si tagliava con il coltello.
Non c’erano parole di incoraggiamento, nessuna partecipazione ai suoi sforzi
per diventare un buon cantante. Non c’erano soldi per finanziare l’acquisto
degli strumenti, anche se ne usavano a fiumi per le cose più venali.
“Avevo degli amici, al mio paese. Grandi persone.
Con loro la musica veniva facile, ci mettevamo lì, così, senza pensarci … Uno
attaccava un accordo e gli altri gli andavano dietro. Si stava intere notti
suonando a ruota libera, solo per divertimento, sai?”
La macchina seguiva il ritmo dei suoi pensieri,
muovendosi pericolosamente fra le corsie del
viale di periferia. Stavamo lasciando la città.
“Josè Maria, ah! Era un fenomeno. Lui sì che era un
grande, avresti dovuto conoscerlo, caro mio”
Mi diede un colpetto alla spalla con la mano, facendomi
trasalire.
I suoi amici, già. Non mi era parso che a Lourdes
piacessero così tanto. Aveva accennato qualcosa, non ricordavo bene, ma di
sicuro mi aveva lasciato questa impressione. Cercavo di recuperare nella mia
mente le sue parole ma mi accorsi che non le avevo memorizzate. Probabilmente
non le avevo proprio sentite perché, solo ora me ne rendevo conto, ero
totalmente preso dalla bellezza di lei. La guardavo parlare e ad ogni frase che
diceva mi sembrava diventare più bella. Fino a quel momento non l’avevo
considerata più di tanto, in verità per me era solo un mezzo per arrivare a
Paco. Sì, mi aveva colpito la sua determinazione, la passione che metteva in
tutto ciò che faceva, ma nulla più. In quel momento, solo in quel momento mi
ero reso conto di aver davanti una donna. Un essere, con le sue passioni e le
sue paure, forte e fragile allo stesso tempo. Lei parlava ed io non la sentivo,
ero troppo impegnato a scoprirla per la prima volta. Quanti anni aveva? Non lo
so, ma mi ero sempre figurato che fosse molto più grande di me. Ora che
finalmente la vedevo veramente, mi ero reso conto che era probabilmente mia
coetanea. Molto più giovane di Paco, quindi.
Lourdes ad un certo punto aveva assunto
un’espressione dura, di totale chiusura, quando aveva iniziato a parlare dei
fratelli di Paco. Lui era il terzo di quattro figli. L’ultima era una femmina,
l’unica che l’avesse capito, in famiglia. “Gli altri due no!” aveva detto con
forza. Erano come i genitori, borghesi fino nel midollo. Figli perfetti per quella
famiglia. Ipocriti che non sgarrano una telefonata per Natale e per il
compleanno di Paco. Ciao, come stai? Sono contento di sentirti. Ma pensi di
tornare, un giorno? Ora Lourdes era un fiume in piena. Capisci, mi diceva, per
loro è intollerabile che lui se ne sia andato. Non si lascia la famiglia, non
ci si muove da Rosario, chissà cosa c’è fuori, sicuramente qualcosa di
pericoloso e di sconveniente, ci puoi giurare!
Una riga le solcava la fronte, un lampo meraviglioso
in mezzo ai capelli crespi.
“Sai cos’avevo, quando ero laggiù?” disse, mentre mi
squadrava con aria ironica.
Tacque a lungo, come aspettando una mia risposta ma
io mi guardai bene dal fare anche solo che un cenno del capo.
“Avevo la cosa più preziosa del mondo, cazzo! Il
tempo, tutto il tempo del mondo!”
Diede una manata sul volante, facendo suonare
involontariamente il clacson.
“Sai cosa vuol dire avere tempo? Eh, lo sai?”
Sì che lo sapevo. Quante volte mi ero sentito
inadeguato, non all’altezza perché non mi era bastato il tempo per fare le cose
come si doveva.
Eppure Lourdes aveva parlato di una vita
continuamente amareggiata dalla mancanza di un rapporto con i genitori. Paco
era un ragazzo sensibile e ne soffriva, anche se cercava di non darlo a vedere.
Aveva assunto una specie di maschera e rispondeva con un sorriso ad ogni
critica, ai continui paragoni con i fratelli, agli obiettivi mancati che gli
venivano rinfacciati. Sembrava volare con leggerezza sopra le continue
insinuazioni sullo stile di vita suo e dei suoi amici. Alla fine però si era
presentato a tutta la famiglia con una valigia in mano ed aveva detto:
“Io me ne vado”
Seguendo il filo contorto dei pensieri di Paco
andammo avanti per molte ore. Per fortuna aveva evitato di prendere
l’autostrada, preferendo la via normale. Finalmente arrivammo al posto.
Era un piccolo laboratorio artigianale, perso in
mezzo ai capannoni di una zona industriale semi-abbandonata. Quando il titolare
vide Paco si illuminò e lo condusse subito nel retrobottega, iniziando con lui
un fitto colloquio. Io non ero stato invitato e non li seguii. Dopo un tempo
infinito Paco riemerse con in mano la sua chitarra.
Per il ritorno gli proposi di lasciarmi guidare. Me
ne fu grato, lui era totalmente preso dal suo nuovo acquisto.
Al fiume di domande, ai discorsi melassosi che
cercavano di trattenerlo, alle obiezioni su come avrebbe fatto a vivere senza
il loro aiuto, aveva risposto semplicemente:
“In Europa” e si era avviato alla porta. Fu allora
che suo padre gli gettò dietro quella frase, le ultime parole che Paco avesse
più sentito dalla sua voce:
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