Il nonno Edgardo |
Nello scrivere questo tipo di romanzo c'è una difficoltà in più: la necessità di documentarsi in maniera puntuale su una miriade di aspetti diversi. Ma proprio lì sta anche il suo aspetto più affascinante: ci si può far trascinare nel gorgo dei documenti, seguire le fonti, incrociare avvenimenti diversi. Attraverso i personaggi si possono annodare percorsi straordinari, fino al punto da non comprendere più se è il personaggio che richiede quella situazione oppure sia stata lei a presentarsi così ghiotta da determinare il personaggio.
A me è successo, ad esempio con l'Arrigo. Arrigo Maltinti, per la precisione, l'arrogante caposquadra del "Foro", il tormento del gruppo di operai che lavorano alla costruzione della Stazione delle Precedenze nella grande galleria della Direttissima Bologna-Firenze. Nel pensare una storia per lui, mi è prima affiorato un nome, un luogo da cui farlo venire: Fivizzano, in Lunigiana. Da lì a realizzare che, in quegli anni, l'evento dominante della zona era stato il terremoto del '20, è stato un attimo. Mi sono buttato a cercare documentazione, quando mi sono ricordato di avere un testimone d'eccezione: il nonno Edgardo.
Edgardo è stato il suocero di mia sorella. Per tutti noi è sempre stato il nonno Edgardo. Scomparso da poco, alla veneranda età di di 97 anni, ci ha lasciato un libretto di memorie che riporta anche i suoi ricordi di bambino scampato al terremoto. Eccoli:
3 II terremoto
Il 1919 fu l'anno del mio incontro con la scuola. Frequentai
fa scuola privata della "Giacchi" dove l'insegnante Rappi Emma,
severa ma buona e molto comunicativa, mi insegnò a scrivere le vocali e poco
altro.
Fu in questa scuola, in via Cavallotti, che il
pomeriggio del 6 settembre 1920 sentii pronunciare per la prima volta la parola terremoto. I
compagni più grandi si precipitarono spaventati per le
ripide scale ed io li seguii fino
in strada. Giunto a casa mi spiegarono il fatto e mi
tranquillizzarono. Il mattino seguente, il 7 settembre,poco prima delle ore otto, si ripetè fa
scossa con inaudita violenza. Ero ancora a letto e lo zio Icilio mi portò in
braccio nello scantinato del fabbricato. La parte dell'appartamento da noi
abitato fu quasi interamente distrutta. Furono ore drammatiche che per lungo
tempo lasciarono in me paura e sconcerto. Sentivo la nonna raccontare che se
mia zia Romana non si fosse alzata un'ora prima del solito, sarebbe rimasta
sotto una trave del tetto che si era abbattuta sul letto.
Il sisma fu veramente una catastrofe: quasi tutte le abitazioni distrutte o seriamente danneggiate, oltre quaranta i
morti, gli aiuti quasi inesistenti, ovunque pianto e desolazione.
I mesi che seguirono furono di inaudita sofferenza.
L'inverno era alle porte e noi ancora sotto le tende. Ricordo che un forte
temporale spazzo via l'accampamento.
Del periodo in cui fummo attendati al Piazzone esiste una
foto scattata da un marinaio venuto insieme alle truppe dei soccorritori
(...) In quei giorni da Fivizzano transitò il re. Lo ricordo in
piedi sopra un'automobile, che ci faceva segni di saluto. Il sovrano prosegui
poi per la Garfagnana, altra zona colpita dal sisma e si racconta che giunto
nelle vicinanze di Terenzano fece fermare il convoglio per ammirare il
bellissimo panorama delle Apuane, dicendo: "Ma questa è la Svizzera
italiana".
Nel 1922-23, per iniziativa del prof. Metello Francini,
primario dell'ospedale di Fivizzano e dell'associazione combattenti, i
fìvizzanesi furono invitati a partecipare allo sgombero delle macerie della
chiesa dei francescani che si trovava dove ora è l'entrata dell'ospedale. Vi fu
un'adesione numerosa di uomini e di ragazzi che si misero al lavoro con
costanza ed entusiasmo. Dalle macerie uscirono anche numerose ossa umane, visto
che le chiese anticamente servivano spesso da cimitero. Tali resti furono poi
portati in una cappella che si trova ancora oggi nel bosco dei frati.
Attualmente al posto della chiesa, sulla destra di chi entra nell'ospedale, vi
è un albero gigantesco; è un abete piantato nel 1931. Anch'io contribuii
all'opera. A proposito dello sgombero delle macerie, merita un cenno il fatto
che segue. Una domenica mattina, mentre ferveva il lavoro dei volontari, venne
un ordine dalle autorità provinciali di sospendere ogni attività. Le ragioni di
tale decisione erano dovute probabilmente al fatto che tra l'associazione
combattenti ed i primi esponenti del nascente partito fascista non correva buon
sangue.
(...)
5 La scuola
Le scuole riaprirono a ottobre dell'anno 1921 in una baracca
dove ora si trova la Banca Toscana e successivamente trasferite in una sede
più idonea: la più bella baracca del «Vivaio" posta dove ora c'è il campo sportiva.I banchi non erano
troppo nuovi e ricordo il "Cecé" che veniva con un bottiglione di
inchiostro a riempirci i calamai. D’inverno si combatteva il freddo con qualche
semplice, ma efficace esercizio di ginnastica: battere i piedi e spingere le braccia in alto
ed in avanti. Una piccola stufetta,
alimentata con qualche fascio di legna
che andavamo a cercare nei boschi di
castagni, stemperava I’ambiente ma per poco. La stufa difettosa e la legna non
sempre secca procuravano
un fumo cosi fastidioso da indurre il maestro a
far spegnere il “riscaldamento”.
6 Le baracche
Nel raggruppamento di baracche del "Vivaio", circa quaranta, si viveva abbastanza tranquilli,
ma le privazioni erano davvero molte. La convivenza di tante persone creava quotidiani problemi di difficile soluzione. I servizi igienici erano praticamente inesistenti: un baracchino
all'inizio dell' accampamento e uno al termine. L'acqua era preziosa: un
piccolo getto, dove ora si trova l'edificio della scuola materna, serviva tutta
la comunità.
Altro problema era il bucato. Le massaie, alle qual era affidato questo compito, dovevano anche provvedersi la legna per alimentare il fuoco e avere acqua bollente. Quindi
sistemavano le lenzuola e tutto ciò che doveva essere lavato in un grosso
recipiente a forma troncoconica chiamato bugio; coprivano il tutto con un telo
di juta, lo cospargevano di cenere e,
per qualche ora, vi gettavano sopra acqua bollente. All'estremità del bugio una cannella immetteva il
ranno in un recipiente che poi serviva ad altro uso.
Raccolta in un cesto la biancheria, se la caricavano in
testa e andavano a sciacquarla in località assai lontane dall'abitazione: la
fontana di sotto e la fontana grande.
Non tutto il paese viveva al "Vivaio".
Raggruppamenti di baracche erano dislocati in altri siti: Piazzane, Campo di
Salotto, Cemento, Livorno (perché donate dalla città di Livorno), sul lato destro
di via Roma andando verso l'ospedale. Tutti questi insiemi di baracche avevano
gli stessi problemi igienici e di convivenza.
Al Rondò, odierna piazza Marconi, sotto il bel platano, vi
erano la farmacia Clementi ed il negozio Catalani.
Altre baracche, che sorgevano sparse ed isolate, ospitavano
gli uffici postali in via Pedretti e forse anche gli uffici comunali. La
pretura era alla Porte di sotto, dove adesso è la colonna in arenaria a ricordo
dello stampatore Jacopo da Fivizzano. Questa sede fu poi destinata alla scuola
di musica.
Sulla sinistra di via Roma, andando verso Nord, dove ora
sorge la casa delle sorelle Brunelli, vi erano due costruzioni in legno fra le
più belle. Una adibita a chiesa, l'altra a canonica. La baracca chiesa cominciò
a funzionare regolarmente un paio d'anni dopo il terremoto, quando decisero di
demolire la volta della chiesa parrocchiale pericolante e sostituirla con
cassettoni di cemento armato. In questa chiesa ricevetti la mia prima
Comunione. Fu un giorno bellissimo ed indimenticabile.
Nella provvisoria sede parrocchiale non fu trasferita
l'immagine della Madonna di Reggio, molto amata e venerata da tutta la
popolazione.
L’immagine fu posta in una sede ricavata nel palazzo del
nobile Battini Rossi. Tale edificio, rimasto indenne dal terremoto, fu demolito
per ragioni poco chiare qualche tempo dopo.
Il nonno Edgardo, con i suoi dolcissimi occhi azzurri!!!!
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