Il posto della mente è una piccola oasi letteraria dove possiamo andare quando abbiamo bisogno di qualcosa di diverso. Di leggere, o scrivere storie. Storie inventate, come quelle che io, da principiante, sottopongo al vostro giudizio, oppure storie vere, piccoli "frammenti di vita" che scivolerebbero immediatamente nell'oblio se qualcuno di noi non li raccogliesse.

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domenica 15 agosto 2010

Via del Campo (omaggio a Fabrizio De André) [Euterpe]

Il cielo era bianco, minacciava neve.
La gente cominciava ad arrivare e a sistemarsi all’interno della chiesa di Carignano.
Grazia era già dentro, in piedi al lato dell’altare, nascosta dall’oscurità proiettata dalle cappelle.
Era stata la prima ad arrivare. Non voleva restare in ultima fila.
Con le mani magre e nervose continuava a lisciare la gonna nera. Sorrise, pensando che le tirava un po’ sui fianchi. I fianchi, già, quelli che Fabrizio tanto amava.

Sorrise, ma fu solo un attimo. Il dolore le prese la gola quando iniziarono ad arrivare le autorità: c’erano davvero tutti, anche se Fabrizio non amava gli sfarzi, tanto meno le autorità costituite.
La chiesa andava riempiendosi a velocità incredibile, sembrava un formicaio.
Poi ci fu un attimo di silenzio teso. Eccoli, i famigliari: Dori, Luvi e Cristiano, bianchi di dolore, silenziosi e tristi, si sistemarono in prima fila, composti e duri come solo i liguri sanno essere.
L’aria si fece di piombo, gonfia di lacrime.
Entrò la bara.
La folla era un unico fiume nero, su cui svettavano alte due bandiere inconfondibili: quella del Genoa e quella dell’anarchia, le grandi passioni di Fabrizio.
Oltre alla musica, ovviamente.
Grazia si era ripromessa di non piangere, di non ricordare, di non soffrire, perché Fabrizio non avrebbe voluto, ma sentiva che le lacrime stavano salendo su dal cuore, erano strette in gola e sarebbero sgorgate presto.
Strinse i pugni come per bloccare i pensieri, ma non ci riuscì.
Le sembrò di sentire ancora l’odore della focaccia calda che Fabrizio le portava ogni volta. Lui arrivava di mattina, mai di notte.
Lo sentiva salire le scale dopo aver suonato il campanello giù da basso, sentiva l’odore della focaccia che lo precedeva. Entrava dalla porta sempre aperta e le sorrideva. Posava la focaccia sul tavolo senza dire niente e preparava il caffè.
Era l’unico cliente a cui aveva concesso di entrare anche nelle altre stanze, oltre alla camera da letto.
Bevevano il caffè caldo e mangiavano la focaccia. Parlavano poco. Gli occhi liquidi di Fabrizio, sapevano raccontare molte cose. Grazia sapeva, dalla piega storta del suo labbro inferiore, se la notte era trascorsa bene, se l’ispirazione era arrivata, se l’umore di quel giovane schivo, ruvido come gli scogli del suo mare, era buono oppure terribile.
Poi facevano l’amore, qualche volta anche lì, in cucina. Era giovane Fabrizio e il suo vigore lo confermava. Spesso non c’era bisogno del letto.
Ma non era mai violento lui, no. Aveva un modo di toccarla, di accarezzarla e di fare tutto il resto che trasudava rispetto, affetto, dolcezza. Una volta, lei, scherzando, gli aveva detto: “Mi tocchi come se fossi una bambola di porcellana”.
Lui l’aveva guardata a lungo, in silenzio, poi le aveva detto: “Tu sei il paradiso, tu sei come un fiore e i fiori vanno toccati con cura”.
E lei, per nascondere un certo imbarazzo, aveva ribattuto: “Ma quale fiore, Fabrizio, vivo in mezzo alla merda di questa città, quale fiore?” e lui, ancora guardandola negli occhi: “Il letame è merda, merda di cavallo e mucca; i fiori più belli nascono dal letame, dai diamanti non nasce un belin di niente”.
Grazia era confusa da quelle parole, dai modi gentili di Fabrizio, assolutamente privi di smancerie, eppure così dolci.
Le lasciava i soldi in un angolo della vecchia credenza, quasi per nasconderli. Lei non li chiedeva, lui non dimenticava mai di lasciarli, lì, in quell’angolo di cucina.
Si era affezionata a lui, a quel giovane che non sapeva cosa fare della sua vita, così confuso eppure determinato, fragile eppure capace di stupirla, d’incantarla, di amarla.
Questo fu l’errore: Fabrizio s’innamorò di lei.
Via del Campo era diventata una tappa fissa del giovane. Forse lei aveva esagerato con la confidenza.
Fabrizio andava a trovarla quasi ogni giorno. Portava la sua chitarra e le faceva sentire i brani che scriveva. La sua voce era come le carezze che scorrevano sul corpo di Grazia, calda come i baci golosi che si scambiavano dopo caffè e focaccia, velluto su cui far scivolare le mani.
Ascoltava le sue storie cantate e sorrideva. Parlava spesso dei carruggi, dei personaggi strani e malati che animavano il centro storico, degli odori salati di Genova, del suo mare e del dolore.
Cantava d’amore e di giustizia, di morte e di dio, quel dio con cui aveva un rapporto difficile: a tratti voleva rinnegarlo, a tratti ne aveva bisogno.
C’erano giorni in cui non facevano neppure l’amore: lei lo stava ad ascoltare e lui cantava.
Poi Grazia lo accompagnava giù da basso e Fabrizio rimaneva per qualche istante a guardarla salire le scale: lei lo sapeva e le piaceva, sentiva la carezza dei suoi occhi lungo la schiena, sui fianchi, nella nuca.
Tra un cliente e l’altro Grazia pensava a Fabrizio. Le dava coraggio pensare a quel ragazzo di dieci anni più giovane che le voleva così bene. Si sentiva fiera di se stessa per il fatto che un uomo di vent’anni le chiedesse il parere sui suoi testi, sulla sua musica. Era bravo Fabrizio, lei lo sapeva.
Grazia era ignorante, aveva fatto solo la quinta elementare, ma la musica di Fabrizio le entrava nel cuore, la faceva piangere, ridere, pensare.
La emozionava.
Non aveva tempo e sapeva che le ore dedicate a Fabri erano perdute, ma a volte non poteva farne a meno.
Gliel’aveva detto: “Fabri, che bella canzone…mi sono emozionata, mi sono commossa…” e lui aveva risposto: “allora vuol dire che funziona, vuol dire che ti ho fatto capire cosa avevo dentro”.
Rimaneva scossa da quelle considerazioni, non era abituata a certi discorsi.
Non sapeva neppure cosa volesse dire guardarsi dentro. Era abituata alla miseria, alle mani dei clienti che la frugavano ovunque, alla muffa dei vicoli, a far quadrare i conti, alle preoccupazioni.
“Vieni via con me, Grazia, sposami, ti levo da qui, ti porto lontano dentro a un sogno”, le aveva detto un giorno freddo d’inverno, mentre la stessa neve che ora stava lì appesa al cielo, diffondeva il suo odore bianco nell’aria.
Era rimasta impietrita. Non era certo la prima volta che un cliente le chiedeva di sposarla, ma da Fabrizio non se l’aspettava.
“Ma che dici, Fabri, che dici? Hai vent’anni e studi ancora, vuoi fare il musicista e passi le giornate a scrivere e cantare…io ne ho trenta e faccio la puttana da quando ne ho quindici, mi dici che famiglia potremmo essere?”
Sentiva il cuore scoppiarle in gola e la testa pulsare, non era mai stata così confusa.
Lui l’aveva guardata con i suoi occhi liquidi, senza risponderle. Grazia lesse la sua delusione nella piega storta del labbro inferiore.
“Fabri, è assurdo, capisci”
“Lo so, però io ti amo e se vuoi ti levo da questa merda. Non ti prometto nulla, ma qualcosa di meglio di tutto questo, sì”
“E come, ragazzo, mio, come? Hai solo vent’anni e non hai neppure uno stipendio”. Grazia si odiava per il male che stava facendo a Fabrizio ma non poteva dirgli che aveva un famelico bisogno di soldi, che il suo bambino biondo e sorridente era in un collegio in Francia e lei lo manteneva a distanza.
La più squallida e classica storia dei carruggi: un figlio avuto da un cliente, non sapeva neppure quale; un figlio a cui non aveva voluto rinunciare e al quale voleva garantire un futuro migliore del suo. La solita vecchia e banale storia di una puttana.
Non poteva dirgli che le rare volte in cui si assentava non andava a trovare sua madre in Piemonte, come gli raccontava, ma andava a Nizza, con i vestiti più belli, a trovare suo figlio.
“T’interessano solo i soldi eh, Grazia? Solo quelli?”, rispose lui livido.
Grazia non ebbe la forza di rispondere e si voltò dandogli la schiena. Sentiva le lacrime salirle agli occhi esattamente come le stava accadendo in chiesa, adesso che la bara era ferma davanti all’altare e il sacerdote recitava la preghiera dei defunti.
“Vattene, Fabrizio, esci da qui, vattene, questa non è la tua vita, esci da qui e non tornare mai più”.
Sentì il rumore della sedia che strisciava sul pavimento. Non si voltò.
Fabrizio non disse nulla: il rumore dei suoi passi lenti, vagamente strascicati sul pavimento, restò a lungo nella mente di Grazia.
Nell’aria si sentiva l’odore del caffè e sul lavandino di marmo la carta unta della focaccia penzolava stanca.
Non lo rivide mai più.
La prima volta che ascoltò “Via del Campo” si sentì mancare.
Il lato puro del suo cuore smise di battere per qualche secondo.
Fabrizio restò sempre lì, in quella zona innocente della sua anima.
Ci restò sempre, c’era ancora adesso, in quella chiesa sudata di gente.
Non si era mai chiesta se lo avesse amato, come non si era mai chiesta niente di se stessa.
Non c’era tempo.
Non c’era tempo per amare, il tempo serviva per la sopravvivenza.
Lisciò ancora la gonna nera che le fasciava i fianchi e fissò a lungo la bara.
“Ciao Fabri” disse sottovoce. Dalla borsetta tirò fuori un pacchettino quadrato, unto in superficie.
Si avvicinò, confusa tra la gente, confusa tra i volti, la commozione, l’incenso e le lacrime.
Arrivò di fianco alla bara circondata da fiori, oggetti, lettere, stendardi rossoblu, bandiere bianche, dischi e senza farsi notare appoggiò delicatamente il pacchettino su quel tappeto di ricordi.
“Oggi te la porto io la focaccia, amore”.
Uscì quasi di soppiatto dalla chiesa mentre la moltitudine umana era ancora in piedi ad ascoltare le ultime preghiere per Fabrizio.
Il cielo non piangeva ancora neve, era solo bianco e triste.
Svoltò l’angolo della piazza e si trovò di fronte Jacopo.
“Ciao nonna, hai finito in chiesa?”
“Sì, tesoro, finito. Andiamo”.
Poco distante, suo figlio Marco con la nuora Caterina la aspettavano sorridendo lievi.
In casa loro la musica di Fabrizio De Andrè era un’abitudine di sempre, anche se Marco non avrebbe mai immaginato che sua madre sarebbe addirittura andata al funerale del suo cantante preferito.
Del resto, c’era mezza Genova.
Non era poi così strano.

Via del Campo c'è una graziosa
gli occhi grandi color di foglia
tutta notte sta sulla soglia
vende a tutti la stessa rosa.



Via del Campo c'è una bambina
con le labbra color rugiada
gli occhi grigi come la strada
nascon fiori dove cammina.



Via del Campo c'è una puttana
gli occhi grandi color di foglia
se di amarla ti vien la voglia
basta prenderla per la mano



e ti sembra di andar lontano
lei ti guarda con un sorriso
non credevi che il paradiso
fosse solo lì al primo piano.



Via del Campo ci va un illuso
a pregarla di maritare
a vederla salir le scale
fino a quando il balcone ha chiuso.



Ama e ridi se amor risponde
piangi forte se non ti sente
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior.

Fabrizio De Andrè

4 commenti:

  1. Per prima cosa devo dire che questo è un colpo basso, cara Euterpe. Fabrizio per me è sacro e qualsiasi cosa lo riguardi attira la mia attenzione in maniera quasi morbosa.
    Per quanto riguarda il racconto:
    E' difficile scrivere di una cosa vera. Difficile e pericoloso, perchè si può riuscire ad ingannare chi non conosce i fatti, ma non chi ne ha notizia (anche di terza mano, come me); se qualcosa stona, se non aderisce perfettamente ai fatti e alle persone si nota subito e squalifica chi l'ha scritto. Non è il tuo caso.
    Qui ritrovo il vero Fabrizio, il suo modo - unico - di rapportarsi all'altro, chiunque fosse, al di la delle convenzioni.
    Molto bello anche il ritmo,che consente al lettore di ricostruire il percorso che ha portato alla canzone.
    Un solo appunto: forse in alcuni punti si nota una scrittura non ancora completamente matura.

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  2. orpolina che bel commento...per ciò che concerne la scrittura non matura: hai perfettamente ragione, infatti è il mio secondo racconto in prosa (il primo è veramente orribile e giammai lo pubblicherò da qualche parte!) e sai che la prosa non è proprio il mio genere perchè finisco sempre per scivolare nella poesia.
    Ultimamente, però, mi diletto parecchio con questo genere.
    Grazie e un abbraccio

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  3. Cara Euterpe, Ale, Nipotina,
    non ho parole!!!! ma non riesco ad essere obbiettiva per quanto riguarda Faber. Per chi conosce la genesi di "Via del campo" è veramente un colpo al cuore. Continua a scrivere in prosa, riesci a emozionare anche con questo tipo di scrittura.

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  4. O mamma mia, pure la ziettina preferita mi commenta...chissà perchè io a pubblicare le mie cose mi vergogno sempre un po'...eppure ho una discreta faccia di tolla, però la scrittura è una cosa intima e come tale condividerla non è sempre facile...ma ci proverò.
    Grazie di cuore
    Ale (modesta eh? Come nicknane ho scelto Euterpe Musa della Poesia e della Musica, wow!!)

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